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Ai lavoratori serve un partito? Note su un intervento di Maurizio Landini

Al congresso confederale della Camera del lavoro di Milano del 31 ottobre scorso, Maurizio Landini ha dedicato la prima parte delle sue conclusioni alla possibilità di una unità sindacale fra Cgil, Cisl e Uil. Landini in sintesi ha esposto queste tesi:

1) “Le conquiste più importanti sul piano anche contrattuale […] sono state frutto del massimo di unità del mondo del lavoro e del massimo di unità fra le organizzazioni sindacali”.

2) “Se non si è arrivati a un’unità organica che ha portato in alcuni casi anche allo scioglimento delle organizzazioni che c’erano per fare un unico sindacato è perché ci sono state delle resistenze delle forze politiche che non tutte vedevano bene un sindacato così autonomo, indipendente e forte”.

2bis) “Nel 1947 la Cgil era ancora una. Poi ci sono state le divisioni per ragioni politiche che hanno prodotto la Cisl e la Uil” ma “di quei partiti oggi non ce n’è più neanche uno” e quindi “ragioni partitiche per non rilanciare un’idea di unità sindacale che vada oltre la semplice unità d’azione non ce ne sono”.

Questi argomenti necessitano una risposta non sommaria.

 

“Uniti siamo tutto!”

La massima unità del movimento operaio è un obiettivo strategico e la sua necessità deriva dal funzionamento dell’economia capitalista. Mentre il padrone di un’azienda ha nelle proprie mani il potere che deriva dalla proprietà dei mezzi di produzione, il lavoratore isolato non ne ha alcuno, ed è in balia delle decisioni padronali. Le cose cambiano se si passa dal piano individuale a quello collettivo. Come classe, i lavoratori sono indispendabili per il funzionamento di qualsiasi azienda e hanno potenzialmente nelle proprie mani il controllo della produzione e della distribuzione. La coscienza di questa forza collettiva rende possibile la lotta e al tempo stesso si sviluppa nella lotta contro il padrone. Uno sciopero è uno strumento di lotta per conquistare migliori condizioni di lavoro, ma al tempo stesso ha la funzione di far prendere coscienza ai lavoratori della propria forza collettiva. Con questo sviluppo dialettico, cambia il rapporto di forze in una fabbrica e nella società e si avanza sul terreno della lotta economica e politica.

La nascita delle leghe operaie, dei sindacati categoriali, la loro unificazione in confederazioni sindacali, un processo che in Italia si è sviluppato oltre un secolo fa, sono conquiste storiche. I tentativi di indebolire o cancellare l’organizzazione sindacale vanno sempre nella direzione di indebolire il ruolo indipendente della classe lavoratrice, dal ridimensionamento della contrattazione collettiva alle legislazioni antidemocratiche nei posti di lavoro. Non a caso i regimi fascisti e bonapartisti mettono inderogabilmente fuorilegge i sindacati, sostituendoli con corporazioni che in nome della pacificazione di classe fungono da veicolo di inquadramento dei lavoratori da parte dello Stato e da cinghia di trasmissione delle esigenze padronali.

Ci sono anche stati regimi, come è il caso del peronismo, in cui da un lato si facevano importanti concessioni economiche e dall’altra si attaccava l’indipendenza delle organizzazioni di classe per mettere sotto tutela il movimento operaio. Un modello che Di Maio non disdegnerebbe, ma che non può attuare per l’assenza di basi economiche.

La difesa dell’organizzazione sindacale è quindi l’abc per i marxisti come per chiunque voglia difendere i diritti dei lavoratori e così la ricerca dell’unità del movimento operaio. Ma dire questo è ancora non dire niente. Il punto è: unità per cosa? Sotto quale programma? Se non si risponde a questa domanda, la rivendicazione dell’unità è un guscio vuoto.

 

L’unità sindacale negli anni ’70

Landini ha fatto riferimento all’unità sindacale che negli anni ’70 portò alla Federazione Cgil, Cisl, Uil e alla creazione di sindacati unici in particolare dai metalmeccanici con l’Flm, ma anche nei chimici e in altri settori. Ma quel processo di unità non fu una condizione di partenza delle lotte, bensì il frutto di un’ondata imponente di lotte operaie, che vinsero le resistenze degli apparati sindacali. Con i Consigli di fabbrica i lavoratori si dotarono di propri organismi di rappresentanza e organizzazione, con delegati eleggibili e revocabili in qualunque momento.
Questi organismi nacquero indipendentemente dal sindacato ed erano una forma di organizzazione di tutti i lavoratori, sindacalizzati e non.

I dirigenti sindacali a un certo punto furono costretti ad assecondare questa pressione per non perdere il controllo della situazione; riconoscendo i delegati eletti nelle fabbriche non fecero che prendere atto della realtà, ma a questi organismi di unità operaia gli apparati impedirono di organizzarsi e coordinarsi fuori dal controllo delle burocrazie. Il segretario della Cgil, Luciano Lama, dichiarò: “La Cgil respinge ogni concezione che tenda a collegare tra loro i consigli dei delegati in strutture parallele a quelle del sindacato al di fuori della fabbrica, perché una tale soluzione organizzativa porterebbe non alla sintesi, alla interazione che vogliamo fra organizzazione di base unitaria e sindacato: porterebbe bensì alla concorrenza e alla lotta tra le due strutture”. Non fu dunque l’unità degli apparati a portare alle conquiste contrattuali che richiama Landini, ma fu l’enorme pressione dal basso di milioni di lavoratori a costringere le burocrazie a un cambio di linea, compreso il processo unitario reso possibile da uno spostamento a sinistra di tutte e tre le confederazioni.

 

Unità e rotture

Questo non fu privo di conseguenze: la rinnovata autorità sindacale significò dapprima il contenimento delle rivendicazioni operaie sul piano più strettamente riformista, limitando la spinta rivoluzionaria dell’Autunno caldo, per poi virare in una fase successiva verso una politica di aperte concessioni alla classe dominante, quella “politica dei sacrifici” che aprì la strada a decenni di arretramenti della condizione dei lavoratori. Nel gennaio del 1978 sempre Luciano Lama dichiarò: “Il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali”. Un mese dopo, nel febbraio, la svolta dell’Eur, codificava questa politica di sacrifici (oggi) in cambio di riforme e investimenti in un futuro imprecisato. Fu l’inizio di un arretramento pluridecennale.

La rottura dell’unità sindacale avvenne nel 1984, quando Lama non firmò l’accordo di San Valentino con cui Cisl e Uil accettavano il taglio alla scala mobile (sistema di adeguamento automatico dei salari all’inflazione). Se con l’Autunno caldo la pressione della base spingeva verso l’unificazione in un contesto di avanzamento dei rapporti di forza, a metà degli anni ’80, in un contesto di arretramento, i settori più avanzati spingevano per la rottura con Cisl e Uil per ergere una barriera alla politica di concessioni degli apparati sindacali. Allo stesso tempo i lavoratori cercavano una diversa unità, una unità di lotta e dal basso, attraverso la rivitalizzazione dei Consigli di fabbrica, la cui spinta fu però ancora una volta dirottata dalle direzioni sindacali e del Pci dal terreno della lotta al vicolo cieco del referendum.

Non si può quindi prendere il concetto di “unità sindacale” e svuotarlo del contenuto politico che ha di volta in volta assunto, ignorando la sostanziale differenza che assumeva per la base del movimento operaio e per gli apparati e i differenti obiettivi che perseguiva.

Del resto se lo stesso Landini si è fatto “un nome” nel panorama sindacale e politico del nostro paese, ciò non è avvenuto grazie all’unità bensì alle rotture che la Fiom per diversi anni ha operato contro le capitolazioni di Cisl e Uil di fronte a Federmeccanica e a Marchionne; si deve anche alla rottura che Landini fece nella stessa Cgil quando, da segretario della Fiom, si schierò contro l’accordo del 10 gennaio 2014 fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Quelle rotture fecero sì che un settore importante della classe lavoratrice vedesse nella Fiom un punto di riferimento per una possibile unità di lotta, sacrificata invece negli anni recenti a una strategia di accordo di vertice (unità…) che di tutte quelle battaglie ha sepolto le ragioni.

Ora, da candidato segretario della Cgil, Landini riscopre un nuovo afflato unitario (peraltro solo verso destra, cioè verso Cisl e Uil) con l’obiettivo dichiarato di una “contrattazione inclusiva” che nel suo intervento ha investito di poteri quasi mistici. Ma in assenza di una strategia di rilancio delle lotte, questo appare come solo un tentativo di riesumare una concertazione fuori tempo massimo, verso un governo che non può, né vuole praticarla.

 

Partito e sindacato

La tesi collegata di Landini è che l’unico ostacolo a una più ampia unità sindacale sia stata l’esistenza dei partiti che hanno provocato la scissione del ’47, e che oggi esista un contesto più favorevole per un’unificazione e quindi per un avanzamento sul terreno della contrattazione.

L’argomento implicito è che senza “politica” i lavoratori sono più uniti e quindi più forti. Su questo punto il nostro dissenso da Landini è profondo.

Guardiamo la situazione concreta. La sinistra ha abbandonato la classe lavoratrice ed è stata (meritatamente) distrutta; spuntano partiti demagogici come i 5 Stelle che promettono mare e monti prendendo allegramente in giro i lavoratori, i disoccupati, i precari; altri partiti smerciano a piene mani il razzismo e la guerra tra poveri. Il Pd rimane il partito della borghesia, il partito dello spread e dell’austerità. Non esiste una sola forza politica significativa di cui i lavoratori possano fidarsi.

Come si fa con un quadro del genere a dire che i lavoratori possono diventare più forti ignorando questo gigantesco problema politico? In realtà i lavoratori italiani (e non solo) avrebbero un disperato bisogno di un partito politico che fosse realmente coerente nella difesa dei loro interessi.

Non si può parlare seriamente dei “partiti” in generale, senza distinguere quale programma difendono, a quale interesse di classe rispondono.

L’idea di creare un’ampia unità sulla base dell’abbandono di una visione politica e della riduzione alla semplice lotta economica è vecchia quanto il movimento operaio. Criticando i sostenitori della neutralità politica dei sindacati, Lenin scriveva nel 1908:

Si dice – e Plechanov insiste particolarmente su ciò – che la neutralità è necessaria per unire tutti gli operai che giungono all’idea che è necessario migliorare la loro situazione materiale. Ma coloro che lo dicono dimenticano che l’attuale grado di sviluppo degli antagonismi di classe fa sì che inevitabilmente e immancabilmente le “divergenze politiche” si fanno sentire persino quando si tratta di decidere come si debba ottenere questo miglioramento nell’ambito dell’odierna società. La teoria della neutralità dei sindacati, a differenza della teoria di un loro stretto legame con la socialdemocrazia rivoluzionaria, porta immancabilmente a preferire, per ottenere questo miglioramento, quei mezzi che segnano un affievolimento della lotta di classe del proletariato” (Lenin, Neutralità dei sindacati).

Che sia perché parla a un apparato sindacale che negli anni recenti dalla “politica” (ossia dal legame col Pd) ha ricavato solo guai, oppure per ammiccare ai 5 Stelle, fatto sta che Landini lancia un messaggio pericoloso ai lavoratori e in particolare a quelli più attivi e consapevoli: occuparsi di politica non è importante anzi è nocivo perché “i partiti” sono un ostacolo.

Quindi i lavoratori possono restare privi di un proprio partito politico mentre i partiti del capitale continuano a massacrarli con le loro politiche?

È chiaro che queste dichiarazioni di Landini sono anche una presa d’atto, tardiva, del sostegno massiccio che la classe operaia ha dato e per ora continua a dare ai partiti dell’attuale governo. Ma il compito di un dirigente non può essere solo quello di inseguire i sentimenti delle masse. Si devono dire le cose come stanno: il 4 marzo la classe lavoratrice ha usato il voto per colpire al cuore i vecchi partiti e in particolare il Pd, ma senza un programma di classe, inseguendo le illusioni populiste e interclassiste dei 5 Stelle, si possono solo raccogliere nuovi inganni, nuove delusioni, nuovi tradimenti.

Sappiamo la differenza tra un partito e un sindacato, ma proprio per questo pensiamo invece che i lavoratori più consapevoli, con maggiore coscienza di classe, debbano prendere di petto il problema della costruzione di una sinistra di classe, di un partito che difenda un punto di vista di classe non solo sulle questioni sindacali, ma su tutti i problemi che colpiscono i lavoratori, su tutti i terreni dello scontro di classe.

Suggestioni “antipolitiche” non possono trovare spazio, né nelle forme più combattive dell’anarcosindacalismo o del “sindacato-partito”, né coi cedimenti alla retorica populista.

Oggi più che mai il problema non è negare la necessità di un partito, il problema è costruire il “nostro” partito.

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