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25 Gennaio 2017Il 25 gennaio del 2016 Giulio Regeni veniva rapito al Cairo. Iniziavano così 2 settimane di ricerche che si sarebbero concluse solo con il tragico ritrovamento del suo corpo senza vita. I segni sul corpo parlavano di tortura.
Il 25 gennaio di 5 anni prima segnava l’inizio della Rivoluzione Egiziana con la straordinaria mobilitazione di piazza Tahrir, un evento epocale che ha cambiato la storia del paese e della regione al quale la vicenda di Regeni è indissolubilmente legata.
A un anno di distanza dall’omicidio di Giulio,che si colloca nell’ondata repressiva contro il movimento operaio scatenata dal regime di Al-Sisi, tradito dall’opportunismo dei burocrati e torturato dagli aguzzini dello Stato verità e giustizia rimangono parole al vento.
L’ondata di indignazione e mobilitazione che ha coinvolto moltissimi sopratutto giovani nel nostro paese trova ora come solo punto fisso l’isolata tenacia dei genitori di Giulio.
Vogliamo quindi proporre un’analisi politica che inserisca la vicenda personale di Regeni nel quadro dell’Egitto post-rivoluzionario di cui si occupava; perchè la resistenza tenace di chi cerca la verità, com’è stato per Stefano Cucchi ed oggi ancora per Giulio Regeni, trovi gli strumenti politici per collegarsi ad una battaglia più generale contro le brutalità che quotidianamente il capitalismo produce.
Ciò che noi conosciamo come Primavera Araba, ovvero l’ondata rivoluzionaria che ha attraversato il Nord Africa e il Medio Oriente nel corso del 2011 e ha portato alla caduta di numerosi regimi autoritari (Mubarak, Gheddafi, Ben-Ali) in Egitto ha avuto uno dei suoi momenti più alti in quanto a partecipazione diretta delle masse.
Molti commentatori borghesi occidentali, davanti ad un processo rivoluzionario che non avevano previsto, hanno negato il carattere di classe di quegli eventi. Erano le Primavere dei giovani, degli studenti che sognavano l’Occidente, i suoi valori e i suoi stili di vita e di consumo.
Questa superficialità di analisi aveva due scopi ben precisi: giustificare ex-post la propria incapacità analitica nel comprendere i processi “sotterranei” di accumulo di contraddizioni nelle coscienza politica delle masse, negare il protagonismo delle masse stesse come fattore di sviluppo storico e, la più importante, ridimensionare la portata rivoluzionaria antisistema di quegli eventi, edulcorandoli dai loro contenuti di classe, sociali e politici e mettendoli sul binario compatibile della “democrazia”.
Sotto questa patina di menzogna, prodotta ad uso e consumo delle stesse “democrazie” che fino ad un minuto prima intrattenevano cordiali rapporti con i tiranni detronizzati, c’è la complessità della società viva.
L’area del nord-Africa, come quella balcanica, è stata negli anni della globalizzazione e del liberismo più sfrenato, uno dei lidi principali del processo di “ricollocamento produttivo” o delocalizzazione che il capitale (particolarmente quello europeo) ha messo in campo per abbassare il costo del lavoro e quindi aumentare i propri profitti.
La stabilità politica dei regimi locali ha rappresentato quindi un fattore di stabilità economica per la pacifica razzia che il capitalismo europeo ha portato avanti nei confronti dei popoli mediorientali, dei lavoratori magrebini e delle materie prime della zona.
“Tra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali si registra un certo avvicinamento, sicché molto spesso (e,forse, persino nella maggioranza dei casi) la borghesia dei popoli oppressi, pur sostenendo i movimenti nazionali, lotta in pari tempo d’accordo con la borghesia imperialistica, cioè insieme ad essa, contro tutti i movimenti rivoluzionari e contro tutte le classi rivoluzionarie”.
In questa citazione dal “Rapporto della commissione sulle questioni nazionali e coloniali” (II° congresso del Komintern, 1920) intravediamo con parecchi anni d’anticipo la parabola dei movimenti anticoloniali (pan-arabismo, bahatismo) di cui i regimi mediorientali, in particola modo quello libico, egiziano e siriano, ereditano parte della loro storia.
Borghesie nazionali troppo deboli e cresciute sotto l’ala dell’imperialismo, hanno abbandonato da tempo il loro carattere progressista trasformandosi in aguzzini del capitale internazionale.
Il processo di delocalizzazione produttiva verso quei paesi non solo ha stretto ulteriormente legami già forti tra le rispettive borghesie ed i capitali esteri, ma ha portato ad un significativo sviluppo della classe operaia in quei paesi, come avvenuto del resto anche nei paesi dell’ex-Jugoslavia ed in Turchia.
Nel negare il ruolo rivoluzionario di queste possenti masse operaie arabe, i commentatori borghesi hanno avuto come competitori solamente gli intellettuali della sinistra riformista, altrettanto ciechi davanti a quel processo di accumulo di forze e contraddizioni che nelle Primavere Arabe ha avuto il suo primo punto di rottura. D’altronde, entrambi i liberali e i riformisti si ricordano dell’esistenza della classe operaia solo quando si deve andare al voto e aver salva la propria e ben pagata poltrona.
L’Egitto rappresenta per popolazione, peso specifico del proletariato industriale, tradizioni storiche e importanza geo-politica, il caso più emblematico tra quelli del medioriente.
Regeni, ricercatore dottorando presso l’università di Cambridge,marxista, aveva sicuramente capito l’importanza storica e politica di quella Rivoluzione, scegliendo di studiarne le conseguenze ed i movimenti sociali più profondi.
I sindacati governativi
“Il patrocinio da parte dello Stato [ai sindacati, ndr] è reso inevitabile a causa di due compiti che questo ha di fronte a sé: per prima cosa avvicinare allo stato la classe operaia e così ottenere una base d’appoggio per resistere alle eccessive pretese dell’imperialismo e, allo stesso tempo, disciplinare gli stessi lavoratori ponendoli sotto il controllo di una burocrazia”
I sindacati nell’epoca di declino dell’imperialismo – Lev Trotsky, 1940
L’entrata delle masse sulla scena della storia egiziana nel 2011 ha avuto numerosi effetti. Il primo, più evidente, è stata la caduta di un regime autoritario tra i più solidi della zona.
Ma la forza dirompente delle masse mette in moto processi e ne velocizza altri, colmando ritardi storici di anni in poche ore.
Sul fronte della mobilitazione operaia, che ha rappresentato un elemento decisivo per la caduta di Mubarak, la rottura della diga rappresentata dal regime ha posto in essere un processo di riorganizzazione sindacale promosso dagli attivisti operai coinvolti nelle grandi ondate di sciopero che hanno accompagnato le proteste di piazza Tahrir.
A questo proposito citiamo lo stesso Regeni: “Il grande movimento di massa degli ultimi quattro anni in Egitto ha coinciso con imponenti e diffuse contestazioni operaie. Gli scioperi nelle fabbriche hanno davvero messo alle strette il regime. Tutti i momenti chiave della storia egiziana recente dalla destituzione di Mubarak al golpe militare, fino alla fine del primo governo ad interim, sono state precedute da imponenti mobilitazioni nelle fabbriche.”
A causa delle sue specificità storiche, eredità dell’esperienza politica di Nasser, in Egitto il legame tra i sindacati ufficiali e l’apparato statale è strettissimo.
“Fin dalla sua creazione nel 1957 la GFTU (sigla sindacale controllata dal governo) ha combattuto le richieste dei lavoratori, condannando gli scioperi e i sit-in e denunciandone i leader. Il ruolo principale del sindacato era di assicurare la sottomissione del movimento operaio al governo e, successivamente, all’impresa privata.” (The road to trade union indipendence,Haitham Mohamedein ,20 settembre 2011. )
Il sindacalismo di stato, funzionale quindi alla pace sociale nel paese, ha rappresentato un fattore soggettivo di freno e contenimento importante alle mobilitazioni operaie nel paese. La burocrazia sindacale quindi si assicurava per conto dello Stato, su procura del capitale locale ed estero, che le rivendicazioni operaie non scalfissero ciò che di più attraente aveva l’Egitto agli occhi occidentali. Le piramidi? No, il basso costo del lavoro.
I sindacati indipendenti
Nelle parole di Regeni, pubblicate postume sul Manifesto con cui collaborava leggiamo: “Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di libertà politiche. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di cui il Ctuws è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione.”
Simbolicamente è proprio a Piazza Tahrir che gli attivisti sindacali delle nuove organizzazioni nate sull’onda degli scioperi antiregime si danno appuntamento il 30 gennaio 2011 (cinque giorni dopo l’inizio della rivoluzione) per fondare la EFITU (Egyptian Federation of Indipendent Trade Unions). Nel manifesto, scritto in una piazza assediata da migliaia di attivisti, compaiono rivendicazioni salariali e politiche importanti: salario minimo, diritti alla sanità e all’istruzione per tutti, diritto alla libera organizzazione sindacale, libertà per i militanti incarcerati e i detenuti politici. Si tratta quindi di un processo di riorganizzazione sindacale che coinvolge un nuovissimo strato di attivisti operai assieme alle realtà di sindacalismo indipendente sopravvissute alla repressione poliziesca del regime di Mubarak. Tra queste anche il CTUWS citato da Regeni, nato nel 1990 su iniziativa di Kamal Abbas e Yusuf Darwish, attivisti di lunga data passati entrambi per le prigioni di Nasser e Mubarak
La nascita dei primi sindacati indipendenti egiziani è tuttavia precedente alla Primavera Araba ed inizia con le grandi mobilitazioni operaie del distretto tessile di Mahalla a nord del Cairo.
Mahalla, una vera e propria città-fabbrica nel 2006 fu attraversata da imponenti scioperi che coinvolsero la maggior parte dei 27.000 lavoratori della Misr Spinning and Weaving Company. In pochi giorni gli scioperanti raccolsero più di 12.000 firme in sostegno ad un atto di sfiducia pubblica nei confronti del Comitato di fabbrica (la rappresentanza sindacale) composto da membri del GFTU che si era opposto allo sciopero.
Negli anni successivi, ondate di protesta coinvolsero altri settori di lavoratori egiziani, in particolare i dipendenti dell’agenzia di riscossione tasse immobiliari. Circa 10.000 impiegati scesero in sciopero il 3 dicembre 2007 chiedendo aumenti salariali. La mobilitazione, osteggiata dal sindacato ufficiale decretò la trasformazione dei comitati di sciopero in vere e proprie sezioni di un nuovo sindacato indipendente che il 20 dicembre 2008 riunì il suo primo congresso alla presenza di 5.000 delegati in rappresentanza di più di 30.000 lavoratori.
Le mobilitazioni del periodo 2006-2011 sebbene incapaci di portare ad una vittoria sul piano delle rivendicazioni salariali restano segnali importanti per misurare l’indebolimento della presa che il governo di Mubarak attraverso i suoi sindacati aveva sulla classe lavoratrice egiziana.
Attorno agli scioperi inoltre si costruì una prima leva di attivisti politici che ritroveremo negli anni della Primavera attorno alla sigla “Movimento 6 Aprile”, nato come comitato di supporto alle mobilitazioni degli operai tessili del 2008 e protagonista delle mobilitazioni di Piazza Tahrir.
Il ruolo centrale e dirigente che il marxismo attribuisce alla classe lavoratrice nella lotta per l’emancipazione di tutti gli oppressi è splendidamente confermato dalle vicende egiziane che precedono e attraversano la caduta del regime.
Nuovo regime, nuova repressione
Abbiamo più volte spiegato i motivi per cui l’enorme spinta rivoluzionaria di Piazza Tahrir si sia spenta e come si sia potuto instaurare sulle sue ceneri un altro regime altrettanto sanguinario quanto quello spazzato via nel 2011. A questo proposito rimandiamo alle analisi prodotte dalla nostra internazionale negli ultimi 6 anni (www.marxist.com)
Le rivoluzioni come eventi storici non si evolvono nel vuoto ma nelle contraddizioni vive che attraversano il sistema che dovrebbero abbattere.
Questo porta ad un processo di flussi e riflussi, spinte e contro spinte che rappresentano i rapporti di forza concreti tra le forze della rivoluzione e della controrivoluzione ed in ultima analisi tra le classi sociali che si fronteggiano. Aver chiara la dialettica del processo rivoluzionario è fondamentale nella misura in cui ci permette di spiegare la sua momentanea battuta d’arresto e nel contempo di non cadere vittime del pessimismo.
Il regime di Al Sisi rappresenta oggi la rivincita che la classe dominante egiziana, supportata dall’imperialismo, ha momentaneamente preso nei confronti del popolo insorto.
Il controllo ferreo sul movimento operaio, lungi dall’essersi ristabilito, rimane come prima uno degli obiettivi principali del regime.
“Repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative [le attività dei sindacati indipendenti, ndr.], al punto che le due maggiori federazioni (la Edlc ed Efitu) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013. “ (Giulio Regeni, Il Manifesto online, 5 febbraio 2016)
L’omicidio di Giulio Regeni si inserisce a pieno titolo in questa fase. E’ infatti un segreto di pulcinella il fatto che ad assassinare Regeni siano stati agenti legati al Governo. Le recenti confessioni del rappresentante del Sindacato Autonomo degli Ambulanti Mohamed Abdallah sul proprio ruolo di delatore nei confronti dell’attività investigativa di Regeni rendono semplicemente più chiara questa verità, svelando al contempo quel processo di ricostruzione di legami politici ed economici tra lo Stato e le organizzazioni sindacali, anche quelle “indipendenti” nate dalle Primavere del 2011.
Trotsky ne analizzò la natura più di 70 anni fa: “Il capitalismo monopolista è sempre meno incline ad accettare l’indipendenza dei sindacati. Pretende che la burocrazia riformista e l’aristocrazia operaia, che raccolgono le briciole dalla sua mensa imbandita, si trasformino nella sua polizia politica sotto gli occhi del proletariato”. Per dirla con lo stesso Abdallah, intervistato dai giornali italiani: “Siamo noi che collaboriamo con il ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro. Quando viene un poliziotto a festeggiare con noi a un nostro matrimonio, mi dà più prestigio nella mia zona”.
Il legame ristabilitosi tra il regime di Al-Sisi e una parte del sindacalismo egiziano, pur nutrendosi dell’opportunismo e del carrierismo di singoli ed infami burocrati (come Abdallah del resto) rimane un fattore oggettivo che coinvolge i sindacati non solo egiziani e che dipende in ultima analisi dallo sviluppo delle forze produttive.
Verità e Nuove Primavere
Avere chiaro il legame tra il Governo Al-Sisi e l’omicidio di Regeni dovrebbe purtroppo aiutare ad accettare l’unica verità che abbiamo davanti su questa vicenda: insabbiamento, reticenze e distrazioni.
Renzi e Mattarella ed ora Gentiloni hanno dovuto far finta di interessarsi del problema sapendo di essere invece parte del problema stesso.
Che l’azione internazionale del Governo Italiano abbia una qualche efficacia è un fatto dubbio anche per Paola Regeni, madre di Giulio che in un’intervista rilasciata a Repubblica il 15 giugno 2016 dice:”Non ho capito se l’Italia è ancora amica o no dell’Egitto: non si uccidono i figli degli amici” . Parole che seguono un appello fatto dai genitori di Regeni affinché l’UE e l’Italia appesantiscano la mano nei confronti dell’Egitto dichiarando il paese non sicuro e ritirano i rispettivi ambasciatori.
L’appello però è destinato a scontrarsi con l’amara realtà. Nel 2015 il Governo Renzi ha stretto legami commerciali per conto delle imprese italiane con l’Egitto per un totale di 8,5 miliardi di dollari. Questa razza di “gentiluomini” non può certo mancare di parola quando le cifre in discussione sono così alte, non l’ha fatto Renzi e di certo non lo farà Gentiloni che difende gli stessi interessi di classe del precedente Governo con la pecca di essere politicamente più debole dopo la sconfitta al Referendum ed internazionalmente discreditato. Emblematico è il caso della Area Spa, azienda lombarda che fornisce il Governo egiziano di un software per il monitoraggio delle informazioni internet. Si tratta di un accordo che vale 3,1 milioni di euro, approvato dal MISE proprio nel giugno 2016 mentre Gentiloni, all’epoca Ministro degli Esteri minacciava dal Senato: “il governo è pronto a reagire adottando misure immediate e proporzionate”. Immediato e proporzionato in questo caso è solamente il profitto dell’Area Spa che con il beneplacito ipocrita del Governo italiano continua vendere all’Egitto software per lo spionaggio interno e la repressione degli attivisti politici.
Al Sisi, dopo aver ricevuto un’incoraggiante pacca sulle spalle al G20 del settembre scorso, sa che la propria sopravvivenza dipende dalla qualità dei servigi che dovrà prestare ai capitalisti esteri. Questi servigi sono l’ulteriore apertura al mercato dell’Egitto e la repressione di ogni pulsione rivoluzionaria. Le elites dominanti di tutti il mondo sanno che il risveglio della lotta di classe in Egitto avrebbe un effetto dirompente sull’intera zona del Medioriente, fortemente destabilizzata da anni di guerra aperta e repressione.
Le minacce del Governo italiano quindi hanno un limite: la stabilità del regime che dovrebbero intimorire. Del resto, in fatto di insabbiamenti e depistaggi su stragi e omicidi di Stato la classe dominante italiana ha ben pochi rivali.
Sei anni però non passano invano. L’Egitto ha un potenziale esplosivo qualitativamente e quantitativamente molto più elevato dell’era pre-2011.
Il combinato disposto di privatizzazioni, tagli, licenziamenti e repressioni sta accumulando enormi contraddizioni.
La fase repressiva attuale, di cui l’omicidio Regeni è l’esempio internazionalmente più noto, è brutale quanto grossolana e rispecchia le difficoltà nel quale annaspa il regime.
Regeni, che ha condiviso il martirio con migliaia di attivisti sindacali e politici egiziani, fintanto che Al Sisi rimarrà al potere non potrà mai avere giustizia e verità.
La precipitazione degli standard di vita delle masse egiziane sta già avendo i suoi effetti politici e una nuova ondata di manifestazioni e scioperi sta attraversando il paese.
Come la fase 2006-2011 fu il preludio della Prima Primavera Egiziana così questa fase può rappresentare il preludio di una Seconda Primavera Araba che si presenterà alla Storia ad un livello incredibilmente più alto della prima.
L’aver fatto esperienza di un così enorme potere come quello di far cadere un regime avrà per le masse un enorme importanza. Lo scarto esistente tra l’enorme potenzialità del movimento di massa e la debolezza della sua avanguardia politica si colmerà quando dal movimento, dalle università e dai nuovi sindacati liberi emergeranno nuovi quadri politici istruiti alla comprensione dei limiti storici della Prima Rivoluzione, dotati di un chiaro programma socialista che sappia parlare alle masse egiziane e mediorientali tutte.
Alle masse egiziane sotto la direzione cosciente di un partito rivoluzionario spetta il compito di abbattere il Governo Al Sisi e il sistema di cui è servo, restituendo finalmente dignità, verità e giustizia ai popoli arabi e ai loro martiri nelle lotta per la libertà, egiziani o italiani che siano.