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Salute mentale, capitalismo e pandemia

Pubblichiamo volentieri questa lettera giunta alla redazione, che ci offre l’occasione per alcuni brevi spunti riguardo il campo della salute mentale.

Vorrei chiedervi un parere su come inquadrare l’argomento della salute mentale. È un tema di discussione che non mi sembra essere trattato in Italia da parte delle organizzazioni marxiste con la necessaria attenzione. Molte sorelle e molti fratelli di classe possono soffrire di queste patologie e bisogna anche superare lo stigma che riguarda spesso chi ne è colpito.

Le varie forme di psicopatologie hanno diverse conseguenze nella società: a subirne gli effetti non sono solo i singoli individui ma le loro famiglie, il lavoro e quindi la produzione, la spesa pubblica per la loro cura e le relazioni sociali. Ad essere colpiti maggiormente sono le fasce più deboli della popolazione: le donne, i giovani, i lavoratori a basso reddito, i bambini, gli anziani, i disoccupati, le minoranze nazionali e razziali, gli immigrati.

Alcune forme di malattia mentale sono particolarmente destabilizzanti per quanto riguarda l’attività lavorativa. Si stima che entro il 2030 i disturbi depressivi diventino la principale causa di disabilità nei paesi ad alto reddito. Cosa succederà alle persone che cominceranno ad assentarsi per periodi prolungati o che lavoreranno con discontinuità? Chi si prenderà cura di loro? Chi finanzierà le spese per la loro assistenza?

La crisi economica e la pandemia di Covid-19 hanno aumentato in modo esponenziale varie forme di disagio e disturbo mentale nell’ultimo anno: dall’ansia alla depressione; dal disturbo post-traumatico da stress all’abuso di sostanze. L’Oms stima che nel mondo ci sia quasi un miliardo di persone che soffre di un disturbo mentale. In Europa circa 84 milioni di persone ogni anno sono colpiti da qualche forma di problema di salute mentale. Varie ricerche mediche hanno dimostrato che il Covid-19 avrà per anni un importante impatto sulla nostra psiche. In Italia si prevede che entro fine anno ci possa essere quasi un milione di persone colpite per la prima volta da depressione.

L’anarchia del funzionamento dei sistemi di cura della salute mentale è evidente: nei paesi poveri ci sono milioni di persone che non hanno diritto ad alcuna terapia; nei paesi ricchi la medicalizzazione della società dimostra altrettante storture. Se hai un problema, c’è la lista di pastiglie o di terapeuti e se il problema persiste allora bisogna provare un’altra medicina, aumentarne il dosaggio o rivolgersi ad un altro terapeuta. Troppo spesso si lavora sugli effetti e non sulle cause dei problemi.

Quanti sono inoltre i bambini e gli studenti che vengono sollecitati da parte delle scuole, facoltà o genitori a rivolgersi allo sportello di assistenza psicologica o ad effettuare una visita dallo specialista anche quando si tratta solo di un malessere passeggero? Nella società del “just in time” sembra d’obbligo la presenza di una risposta rapida, anche se spesso inefficace.

La malagestione della pandemia ci ha confermato che la sanità pubblica in un sistema capitalista non riesce a garantire il diritto universale alla cura e la sanità privata esiste non per essere “integrativa” del settore pubblico ma per esserne sostitutiva. Per quanto riguarda la cura della sofferenza psicologica, la carenza di medici e di psicoterapeuti nel pubblico fa sì che i pazienti siano seguiti con superficialità o che siano costretti a rivolgersi a professionisti autonomi con la conseguenza di dover pagare il costoso trattamento di tasca propria.

Tutto questo sicuramente va a giovare all’industria del farmaco e agli specialisti privati ma non so quanto alla salute dei pazienti. Allo stesso tempo credo però che sarebbe un errore sostenere genericamente che la maggior parte delle cure farmacologiche e psicoterapiche sono inutili se non dannose: la scienza è sì controllata dalla borghesia ma dei progressi nella cura della salute delle persone sono stati fatti.

La tendenza all’individualizzazione delle soluzioni ai problemi di salute mentale per ogni singola persona ha preso piede negli ultimi trent’anni, facendo anche perdere di vista il punto di riferimento della lotta di classe e dell’alternativa rivoluzionaria per migliorare collettivamente le condizioni materiali della classe lavoratrice. Certamente ogni persona ha il suo grado di sofferenza e di conseguenza i percorsi di cura medici e psicoterapeutici possono variare ed essere orientati su misura della singola persona, ma non deve sfuggire a nessuno che molti problemi mentali sono conseguenza dei rapporti di produzione e sociali della società capitalista e questo sistema va superato e sostituito da una società socialista. Dobbiamo conquistare il diritto di vivere le nostre vite in modo più razionale, senza essere più ostaggi di un sistema che pretende di comandare sulle nostre vite, sui nostri bisogni, sul nostro tempo.

Anche in una società in transizione dal capitalismo al socialismo ci saranno comunque persone colpite da patologie mentali ma si creeranno le premesse per una società libera dallo sfruttamento e quindi alleggerita da molte pressioni sulla psiche. In una successiva società socialista ci saranno più spazio, più tempo e più risorse per dedicarsi alla cura di questa sofferenza con il vantaggio di aver già cancellato molte delle fonti materiali che tanto male causano alle persone.

Lettera firmata

Pubblichiamo volentieri questa lettera, che ci offre l’occasione per alcuni brevi spunti riguardo il campo della salute mentale.

Se in passato la malattia mentale veniva soprattutto rimossa, ghettizzata o criminalizzata, in tempi più recenti si è prodotta una svolta nell’approccio da parte della classe dominante. La salute mentale viene vista, soprattutto nei paesi capitalisticamente avanzati, come un lucroso mercato da espandere e approfondire sviluppando farmaci e trattamenti di ogni sorta. Il bambino “vivace”, l’anziano solo, il lavoratore alienato, la donna “depressa”, l’adolescente “violento”… sono tutti considerati soprattutto in quanto interessanti “pazienti/clienti”.

Questo approccio condiziona indubbiamente anche molte statistiche e un metodo di analisi che attraverso un approccio unilaterale produce una categorizzazione sempre più ramificata di una varietà enorme di fenomeni, che vengono assunti a sintomo di questo o quel disturbo, spesso su base prevalentemente descrittiva, spesso con una notevole dose di arbitrarietà.

Le basi socioeconomiche di molti disturbi vengono negate dal punto di vista di una seria analisi, per essere invece recuperate con metodi da indagine di marketing al fine di individuare categorie e soggetti a rischio di questa o quella patologia o “devianza”.

Troppo spesso la scienza attuale si riduce a dire che se un bambino cresce in un quartiere ghetto ha maggiori probabilità di diventare violento. La risposta che propone non è distruggere i ghetti e ciò che li crea, ma una “terapia” composta in parti eguali di poliziotti, assistenti sociali e psicologi, che pretende di essere preventiva, ma che in realtà è tanto inefficace quanto ipocrita.

La stessa scienza ci informa che una bambina che ha subìto o visto violenze nel suo ambito familiare sarà maggiormente suscettibile di esserne vittima nella sua vita adulta. Ma la risposta non è certo quella di demolire dei rapporti familiari oppressivi e distorti, anzi: la famiglia sarà sempre celebrata come sede dei rapporti affettivi e “cellula fondamentale della società” (poco importa qui che si parli di famiglie tradizionali o meno), la violenza derubricata a fatto culturale e la risposta affidata a terapie individuali che intervengono a danno ormai compiuto.

Con questo non intendiamo certo banalizzare o minimizzare il problema, né negare i progressi fatti nello studio e nella cura della malattia mentale. Tuttavia, come ogni altro progresso scientifico, anche questo è completamente distorto dalla logica del profitto e dal piatto meccanicismo che è una delle tare che condiziona la scienza medica, compresa quella della salute mentale, in questa società.

L’altro lato della medaglia rimane quello della colpevolizzazione del singolo: è colpa tua se non rendi nello studio, sul lavoro, se non hai una vita affettiva soddisfacente, ecc.

Si produce letteratura “motivazionale”, si moltiplicano proposte di attività o corsi rivolti a conquistare “consapevolezza”, “sicurezza”, “autostima” ecc.

Ma dalla somma di due errori non nasce una verità. Unendo questa lettura individualistica e soggettivista del problema con una lettura strettamente meccanica della dimensione sociale e collettiva non si arriva a una sintesi, bensì a un labirinto nel quale l’individuo sofferente nelle sue molteplici relazioni, rimane un oggetto largamente sconosciuto.

Tutto questo deriva sia dagli interessi economici in campo, sia dall’ideologia che su questi si costruisce.

La stessa storia della medicina ci mostra che proprio in coincidenza con le maggiori lotte di classe dei lavoratori anche la cura della salute mentale ha saputo raggiungere concezioni più profonde, più avanzate, che poi sono state largamente inaridite o cancellate nelle fasi di riflusso. È stato così dopo la rivoluzione russa, dopo il ’68 e l’Autunno caldo in Italia, per fare solo due esempi.

Quanto alla situazione nella vita lavorativa, i padroni non sono ciechi né sciocchi. Sanno benissimo che molti luoghi di lavoro sono fabbriche di patologie mentali e fisiche e la cosa non causa loro alcun problema. Le continue innovazioni tecnologiche nel lavoro hanno, per la maggior parte delle mansioni, l’effetto di aumentare il controllo sul lavoratore, diminuirne l’autonomia e tenerlo in una condizione di tensione permanente. A questo si aggiunge la pressione causata dai bassi salari, dalla precarietà diffusa, dalla competitività esasperata.

Il “modello Amazon” (ma era lo stesso nel modello Fiat a Melfi 25 anni fa) prevede un forte ricambio nella forza lavoro che deve essere spremuta al massimo nel giro di qualche anno per poi essere sostituita, anche per contrastare i processi di sindacalizzazione e organizzazione.

Le patologie, di ogni genere, che prosperano su questo terreno vengono considerate dai padroni come un inconveniente secondario che non disturba in nessun modo l’accumulazione del capitale.

La pandemia sta esacerbando tutti i conflitti di cui questa società è già rigonfia e una delle manifestazioni visibili è quella dell’accresciuto disagio psicologico e aumento delle patologie di ogni genere, come si segnala nella lettera.

La nostra risposta a questa situazione intollerabile è esattamente opposta a quella della classe dominante. Le celebrazioni nauseanti della “resilienza” non sono altro che un invito a stringere i denti, arrangiarsi e sperare che prima o poi tutto torni come prima. Gli appelli a mettere qualche pannicello caldo, ad esempio a potenziare servizi di aiuto psicologico per gli studenti abbandonati da un anno nella Dad o per le donne schiacciate tra le quattro mura fra telelavoro e famiglie che esplodono, sono poco più che un abbellimento.

La pandemia sta dimostrando che non possiamo affidare al capitale e al suo Stato la cura della nostra salute e sicurezza, e questo vale anche per la salute mentale.

Il nostro appello come organizzazione rivoluzionaria di fronte non è quindi a tenere duro e resistere in attesa di tempi migliori, ma al contrario a fare deflagrare una protesta collettiva, una vera e propria rivolta contro queste contraddizioni insopportabili.

Solo in un movimento rivoluzionario di massa contro questa società possiamo farla finita con le ipocrisie, le violenze e le ingiustizie di questo sistema. Nel farlo, lotteremo anche per poterci prendere cura con metodi e strumenti adeguati della sofferenza diffusa, che deve suscitare la nostra solidarietà e indignazione sia che ci colpisca direttamente, sia quando la vediamo attorno a noi.

 

la Redazione

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