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Scarsi dispositivi di protezione, senza possibilità di quarantena dopo contatti stretti con positivi e senza possibilità di accedere al test tampone se non di fronte a quadri clinici già gravi. In queste condizioni lavorano gli operatori sanitari osannati dalla politica e dagli organi di stampa come spina dorsale della battaglia combattuta contro il Covid-19.
Trattati come reclute al fronte, male equipaggiati e sottoposti ad una turnazione disumana, medici ed infermieri, ad oggi, hanno già pagato con un tributo di 120 morti e 6000 contagiati ufficiali, oltre che con condizioni di sofferenza psicologica e di esaurimento psicofisico che riguardano quasi tutto il personale. Senza troppo esagerare, alcuni medici veneti hanno scritto un appello in cui hanno affermato di sentirsi trattati come i “pompieri di Chernobyl”.
Un primo aspetto critico riguarda l’utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale. Infatti, in deroga al regolamento UE e alla precedente normativa italiana, il decreto “Cura Italia” ha esteso l’uso di mascherine chirurgiche, senza filtrante, alle situazioni in cui il rischio di contagio è elevato. Queste mascherine non proteggono dall’inalazione di particelle infettanti e il loro utilizzo può quindi essere all’origine della diffusione del Covid-19 presso un settore di operatori che è dovuto intervenire in una situazione di carenza di dispositivi idonei quali le mascherine con filtro (ffp2 e ffp3) di cui gli operatori dovrebbero sempre disporre.
Un altro elemento problematico riguarda il mancato impiego di misure come la quarantena con sorveglianza attiva e la sospensione dall’attività lavorativa nell’ipotesi di contatti stretti con casi di Covid-19 e l’effettuazione a tutto il personale sanitario del tampone. Queste misure sarebbero il minimo accorgimento necessario ad interrompere non solo la diffusione dell’infezione tra i lavoratori della sanità, ma anche la circostanza per cui gli operatori sono, loro malgrado, altrettanti vettori di contagio del Covid-19 verso utenti e pazienti non ammalati.
Di fronte a questo scenario drammatico diverse sigle sindacali del personale medico sanitario hanno proclamato lo stato d’agitazione. La piattaforma di convocazione è criticabile per due motivi: è molto confusa riguarda al percorso da seguire (non è chiaro per esempio cosa si intenda esattamente con l’espressione di “sciopero virtuale” da far seguire allo stato d’agitazione) ed ha una caratteristica corporativa essendo limitata alla sola categoria dei medici e dei dirigenti sanitari e non estesa a tutto il personale del Ssn. Tuttavia, lo stato d’agitazione che è stato proclamato rappresenta un buon punto di partenza per mettere al centro il tema della difesa e del rilancio della sanità pubblica e delle condizioni di lavoro degli operatori ed appare per questo motivo sconcertante la posizione del gruppo dirigente della Fp Cgil che non ha aderito alla mobilitazione affermando che “questo momento storico richiede la massima vicinanza degli operatori sanitari ai cittadini” e che “non ci possiamo permettere di aggiungere ulteriori motivi di disagio e preoccupazione”. Una posizione “più realista del Re”, collocata sull’ipocrita retorica dell’unità nazionale, considerato che lo stato d’agitazione non prevede, giustamente, l’astensione dal lavoro e la chiusura dei reparti che oggettivamente sarebbe stato un atto scellerato in un momento drammatico come questo, ma l’utilizzo di tutto quanto è possibile sul terreno sindacale e vertenziale per far conoscere all’utenza le condizioni in cui il personale sanitario sta operando, per ottenere la solidarietà di altre categorie di lavoratori e per inviare un forte messaggio diretto al governo perché i medici e tutto il personale sanitario non può essere considerato carne da macello nella battaglia contro il Covid-19.
Le sciagurate politiche di tagli lineari alla sanità e di privatizzazione degli ultimi 30 anni sono la base materiale della crisi sanitaria che stiamo vivendo in queste settimane e non possono esserci dubbi ed esitazioni sul fatto che la salute pubblica e il futuro dei servizi sanitari si possono difendere solo con un’azione di lotta risoluta e determinata, che dia centralità agli operatori, al loro lavoro e alle loro competenze.