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9 Ottobre 2015Dopo quattro anni di guerra civile, 300mila morti e milioni di profughi, il conflitto in Siria entra in una nuova fase. La Russia ha deciso di intervenire e dalla fine di settembre sta bombardando sistematicamente il territorio controllato dalle milizie anti-Assad e dall’Isis.
L’intervento di Putin non è però un fulmine a ciel sereno, ma è il risultato di mesi di incremento costante della presenza di Mosca nel paese, conseguenza del progressivo indebolimento di Assad, che controlla ormai di meno di un terzo del paese. Inoltre è avvenuto dopo l’incontro del 25 settembre tra Obama e Putin, dove al di là della propaganda, è stato stipulato una sorta di “accordo tecnico” fra le due superpotenze, riassunto nelle parole del presidente Usa: “Gli Stati uniti sono pronti a cooperare con qualsiasi paese, incluso la Russia e l’Iran, per risolvere il conflitto.”
Tutti contro l’Isis?
Questa dichiarazione conferma il sostanziale fallimento della campagna di Washington, all’insegna della lotta al terrorismo in Siria. I bombardamenti dell’aviazione a stelle e strisce, che ormai durano da oltre un anno, non hanno avuto praticamente alcun effetto, anzi hanno portato a un chiaro rafforzamento dell’Isis. Come ha ammesso Lloyd Austin, del Comando centrale dell’esercito Usa, dopo avere investito 500 milioni di dollari nell’addestramento di miliziani anti-Isis, “Siamo rimasti con un pugno di loro, parliamo forse di quattro o cinque”. Le milizie “moderate” liquefarsi, annientate dai nemici o più facilmente passate ad Al Nusra, un gruppo fondamentalista sunnita appoggiato dalla Turchia, oppure direttamente all’Isis con le armi e l’equipaggiamento fornito dagli Stati Uniti. Nonostante i proclami roboanti, l’intenzione di Washington era quella di contenere l’Isis in Iraq ma di lasciare alla Jihad mano libera in Siria, con la speranza che così potesse contribuire alla caduta di Assad.
Oggi gli Stati uniti protestano contro gli attacchi dei Mig russi che colpirebbero anche obiettivi civili, oltre a ciò che rimane delle milizie anti-Isis filooccidentali. Oltre ad essere dichiarazioni ipocrite, che avvengono proprio nei giorni del massacro operato dai bombardamenti Usa nell’ospedale di Kunduz, in Afghanistan, sono disperate, dato che Obama non dispone di alcuno strumento per intervenire in loro difesa. Dopo essere stati i principali responsabili del caos e della barbarie che regna nella regione, con l’intervento in Iraq e in Afghanistan e il finanziamento e l’appoggio ad Al Qaeda e alle altre milizie jihadiste, gli Stati Uniti rivelano la loro totale impotenza nel conflitto siriano.
La realtà è che in ogni guerra e più che mai in una guerra civile come quella siriana, contano le forze presenti sul terreno. Infatti, le uniche zone dove l’Isis è stato respinto sono state quelle dove combattono le milizie curde del’Ypg, che dopo l’eroica resistenza vittoriosa di Kobane hanno liberato altre zone del Kurdistan siriano.
Negli ultimi mesi anche le milizie sciite hanno aumentato la loro presenza ed oltre all’Ypg, pur con altri obiettivi, sono le uniche che fronteggiano i fondamentalisti. Stiamo parlando della National defence force, sotto la supervisione di Damasco e dell’Iran,che conta 90mila paramilitari. Assad ne organizza 18mila, a cui si aggiungono 8mila di Hezbollah dal Libano 6mila iracheni e 7mila Guardie rivoluzionarie iraniane (Fonte: Afp/il manifesto, 26 settembre). È l’Iran ad addestrare ed equipaggiare i combattenti. Di fronte a questi numeri, gli Stati Uniti non possono che prendere atto della situazione e vivere alla giornata.
La sconfitta dell’intervento in Iraq, con il conseguente ritiro dell’esercito Usa, ha consolidato l’Iran come potenza regionale. Le debacle in Afghanistan ed in Libia, insieme al rovesciamento rivoluzionario di alleati storici come Mubarak in Egitto, hanno completamente cambiato i rapporti di forza nella regione. La Turchia e i paesi del Golfo oggi non seguono più fedelmente gli ordini della Casa Bianca ma hanno ognuno le proprie strategie, che come nel caso dell’aperto sostegno della Turchia all’Isis, confliggono apertamente con quelle degli Usa. Così, dopo averlo definito“Asse del male”, gli Stati uniti sono stati costretti a scendere a patti con l’Iran attraverso l’accordo sul nucleare del luglio scorso. Ma a sua volta questo non ha fatto altro che inasprire i rapporti con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo.
Da questi scontri derivano i tentativi di stringere nuove alleanze. Dietro ai raid francesi in Siria, un’azione non concordata con gli altri paesi della Nato, si cela, oltre alle ambizioni imperialiste di Parigi, un asse con l’Arabia saudita, grande acquirente di armi francesi.
Il nuovo protagonismo russo sta inoltre creando nuovi conflitti, come quello apertosi con la Turchia. Erdogan ha denunciato la violazione dello spazio aereo turco e della “zona sicura”, essenzialmente una no-fly zone interdetta all’esercito siriano. Tale no-fly zone ha come obiettivi quello di garantire le linee di rifornimento ai gruppi appoggiati da Ankara, tra cui l’Isis e impedire che le milizie dell’Ypg giungano alle enclavi curde a nord di Aleppo prendendo il controllo di tutto il confine turcosiriano.
Lo scontro tra Russia e Turchia pare inevitabile, l’allargamento del fronte bellico pure. Come una pulce sulla schiena dell’elefante anche l’Italia non vuole essere da meno e ha manifestato l’intenzione di partecipare ai bombardamenti in Iraq.
Le ragioni di Putin
Stante la confusione che regna nel campo occidentale, l’azione della Russia può ottenere un certo successo, che si consoliderebbe con l’invio di truppe direttamente sul territorio siriano. Putin gode al momento di un grande vantaggio rispetto alle potenze imperialiste occidentali. La Russia ha un alleato, Assad, e sa chi combattere e perchè. La caduta del regime di Damasco porterebbe a un forte indebolimento della Russia in Medio oriente, oltre alla probabile perdita della base di Tartus, unica postazione militare russa che si affaccia nel Mediterraneo. Inoltre, una Siria nelle mani dei fondamentalisti potrebbe avere un effetto destabilizzante anche all’interno della Federazione russa: sono migliaia i cittadini russi, di origine cecena o caucasica, arruolatisi nelle fila dell’Isis.
La motivazione principale dell’intervento russo non è dunque umanitaria. Putin vuole far assumere di nuovo alla Russia il ruolo di potenza mondiale. Combattendo l’Isis in Siria desidera avere tutte le carte in regola per essere al centro dei negoziati sul futuro della Siria e di tutta la regione mediorientale. Non solo, Mosca vuole uscire dall’isolamento internazionale in cui è stata relegata dopo l’appoggio alle repubbliche separatiste ucraine e l’annessione della Crimea.
Tutto ciò non si otterrebbe a titolo gratuito, ma a prezzo di creare ulteriori tensioni ed instabilità nell’area e del probabile impantanamento dell’esercito russo in Siria per molti anni.
Cosa propone infatti Putin per il futuro del paese? Una volta annientato l’Isis, una condivisione del potere tra i seguaci di Assad (che sarebbe anche disposto a farsi da parte, nel caso), e i differenti gruppi sciiti o sunniti, ciascuno sostenuto da una potenza regionale od occidentale. Una “libanizzazione”(o meglio, spartizione) della Siria, dove l’autodeterminazione del popolo curdo, ad esempio, non sarebbe prevista. Oltre ad essere una proposta reazionaria, non risolverebbe alcunchè.
In questo gioco tra grandi potenze, milioni di giovani e lavoratori continuano a non avere alcuna voce in capitolo. E difficilmente potranno averla se le forze di sinistra, in Medio oriente come in Occidente, preferiscono appoggiare uno o l’altro dei contendenti e i loro progetti reazionari invece di assumere una chiara posizione di indipendenza di classe. Invece una difesa delle prerogative di un programma rivoluzionario è oggi più che mai necessaria, nelle proteste di massa esplose recentemente in Iraq e in Libano come in Turchia. Ed ancora di più per il domani quando anche le masse siriane rimergeranno dalla barbarie creata dal capitalismo.
Roberto Sarti