Il marxismo e la questione nazionale
4 Ottobre 2015Scandalo Volkswagen – Così fan tutti
5 Ottobre 2015Bilancio delle elezioni in Catalogna: solo una politica socialista e rivoluzionaria potrà risolvere la questione nazionale
Le elezioni catalane della scorsa domenica hanno mostrato una società polarizzata, quasi in parti uguali, tra i partiti indipendentisti e tra quelli che invece vogliono continuare a fare parte dello stato spagnolo. La politica repressiva del nazionalismo reazionario spagnolo, portata avanti dalla destra, è la principale responsabile dell’aggravarsi della questione. E mentre noi simpatizziamo con le aspirazioni democratiche della maggioranza del popolo catalano a favore del diritto all’autodeterminazione, questo non accadrà mai se si segue la strada del nazionalismo borghese.
Ciò che serve è un’alternativa socialista e rivoluzionaria che unisca i lavoratori al di sopra delle divisioni nazionali.
Le elezioni catalane, hanno costatato ancora una volta il declino di tutte le organizzazioni che per quarant’anni hanno animato la scena politica della catalogna, e che quindi non sono estranee alla crisi politica di regime che stiamo vivendo. In queste elezioni, tutte hanno perso molti voti e, al contrario, solo due delle nuove organizzazioni ottengono voti in più, cioè Ciudadanos e Cup (Candidatura di unità popolare).
I risultati
Il primo numero che spicca è quello in merito alla partecipazione, attestata al 77,44%, che supera di quasi 10 punti quella delle elezioni precedenti (2012), che fu del 67,56%; si tratta di un incremento straordinario per delle elezioni regionali. Bisogna tornare alle storiche elezioni politiche del 1982 per ritrovare un processo elettorale partecipato come quest’ultimo, specialmente nei quartieri operai.
La distribuzione del voto, comparato col 2012, è la seguente (vedi tabella).
Aumento voti | Lista | % 2015 | Voti 2015 | Seggi2015 | % 2012 | Voti 2012 | Seggi 2012 | |
+ 8.329 | CiU-ERC | 39,78% | 1.616.962 | 62 | 44,36% | 1.608.633 | 71 | |
+ 3.311 | PSOE | 12,79% | 520.022 | 16 | 14,43% | 523.333 | 20 | |
– 121.839 | PP | 8,55% | 347.358 | 11 | 12,99% | 471.197 | 19 | |
+ 5.966 | CSQP (ICV+Podem) | 8,97% | 364.823 | 11 | 9,89% | 358.857 | 13 | |
+ 457.222 | Ciudadanos | 18,01% | 732.147 | 25 | 7,58% | 274.925 | 9 | |
+ 209.301 | CUP | 8,25% | 325.520 | 10 | 3,48% | 126.219 | 3 | |
Unió | 2,52% | 102.594 | ||||||
– 47.400 | Voto nulo-blanco | 0,92% | 37.745 | 2,33% | 85.131 | |||
+ 565.531 nuevos votantes | TOTAL |
Guardando i risultati, a parte la vittoria di Junts pel Sì (Convergenza democratica della Catalogna e Sinistra repubblicana catalana) con il 39,7% dei voti, la cosa più rilevante è il fatto che circa il 48% dei votanti hanno scelto partiti che difendono l’indipendenza. Inoltre, il 59% dei voti è andato a partiti che difendono il diritto all’autodeterminazione. Solo miopi ottusi potrebbero negare l’esistenza della mancanza di diritti democratico-nazionali in Catalogna. E la persistenza della destra spagnola (PP e Ciudadanos) e del PSOE, in blocco, di negare di incanalare questo problema in un processo democratico elementare come quello di un referendum per l’autodeterminazione della Catalogna, potrà solo peggiorare la situazione.
I risultati della destra non separatista
In queste elezioni non ha solo partecipato più gente, ma la polarizzazione conseguita ha anche fatto in modo che tradizionali voti bianchi o nulli siano diminuiti drasticamente.
Uno dei dati più rilevanti è il naufragio del Partito Popolare, ridotto a essere un partito irrilevante con appena l’8,5% dei voti (13% nel 2012). Se consideriamo che i voti del partito di estrema destra Piattaforma per la Catalogna (circa 60mila voti nel 2012), che non si è presentato a queste elezioni, sono stati convogliati, per la maggior parte, al PP, bisogna concludere che la stima reale della perdita di voti per il PP è molto più di 180mila in meno rispetto al 2012. Questa è la crisi più grave nella storia del Partito popolare.
Diversamente, Ciudadanos cresce nei quartieri e nelle città operaie. Non solo raccoglie i voti persi dal PP, ma soprattutto riceve i voti dei nuovi votanti, insieme a quelli di vecchi elettori del PSOE e PSC. I suoi dirigenti, che hanno nascosto per convenienza il loro programma a favore di ricchi e imprenditori, sono esperti demagoghi e hanno rivolto il loro messaggio elettorale semplice e molto chiaro fondamentalmente alla popolazione di lingua castigliana e non catalana: difesa dello stato sociale, porre fine all’odio tra catalani e spagnoli, unità con la Spagna. Tutto questo è dovuto all’incremento esasperato, come mai si è visto in Catalogna, della polarizzazione nazionale, unito al profondo discredito di PSC-PSOE e all’assenza di un programma chiaro di trasformazione sociale da parte delle altre forze di sinistra non nazionaliste.
Junts pel SI (Uniti per il SI)
Nel parlamento risultante, esattamente come accade in tutta la Spagna, le province rurali meno abitate e con una presenza relativamente maggiore di piccoli proprietari sono sovrarappresentate rispetto a quelle con maggior densità urbana e maggior densità di disoccupati (che sono quelle più popolate). Un deputato per essere eletto a Barcellona deve ottenere 49mila voti, rispetto a 21mila che servono in una città come Lleida, e da questo discende il fatto che Junts per Si (ERC-CiU), avendo maggiore forza tra la piccola borghesia catalana, con meno del 40% dei voti, ottiene il 46% dei deputati.
Nonostante ciò, Artur Mas vorrebbe la maggioranza assoluta ma non ce l’ha. Queste elezioni sono state impostate dal principale partito di destra catalano, da CDC (Convergenza democratica catalana) e da ERC (sinistra repubblicana catalana), in modo tale da ottenere un plebiscito a favore dell’indipendenza. Però non solo non ottengono la maggioranza assoluta di 68 deputati in Parlamento (si fermano a 62), ma ne perdono addirittura 9 rispetto al 2012, il peggiore risultato sia rispetto al voto percentuale sia rispetto al numero dei deputati di entrambi i partiti dalla restaurazione democratica del Paese.
La rottura dell’indipendentista Uniò dall’antica CiU (Covergenza e Unione) la fa perdere più di centomila voti, che però recuperano da nuovi elettori. Di conseguenza Junts pel si perde voti -in relazione a precedenti elezioni nelle quali si presentavano CiU e ERC- in alcune dei distretti della Catalogna urbana e operaia (come quelli di Tarragona, Barcellona e Baix Llobregat). La sua vittoria arriva soprattutto da zone più interne della regione.
Detto ciò, Junts pel si ha attirato l’entusiasmo della maggior parte della popolazione favorevole all’indipendenza catalana. La manovra di Mas ha ottenuto un risultato, facendo passare in secondo piano, davanti a questo settore di elettorato, la sua gestione antioperaia. Ha la faccia tosta di affiggere cartelli contro le scuole prefabbricate (dove studiano i bambini e i ragazzi che ancora non hanno una struttura scolastica a disposizione, ndt) quando il suo governo ha il triste record di averne innalzate a decine, specie nella comunità valenciana. Così, tutta la campagna e il suo principale candidato Raul Romeva, si sono presentati come i paladini della giustizia sociale e contro i tagli. Tanto cinismo è sorprendente, però ha funzionato, come anche l’essersi appellati all’indipendentismo come soluzione magica a tutti i problemi economici e sociali. Però il suo successo è anche frutto della campagna anticatalanista del PP. Il Partito Popolare, la gerarchia ecclesiastica, l’apparato dello Stato e i mezzi di comunicazione di destra affini come la COPE, La Razon o l’ABC hanno mosso molti più voti verso Mas che il migliore dei suoi militanti.
Il linguaggio di odio anti-catalano, contro i diritti democratici e contro il diritto a decidere, la campagna dei mezzi di informazione (verranno chiusi gli sportelli bancomat, saranno espulsi dall’euro e dall’UE, il Barcellona sarà espulso dalla Liga Spagnola, e altri improbabili disastri..) hanno avuto un effetto di arrabbiatura sui catalani.
Il successo della CUP
Dall’altro lato, dentro il così detto “blocco indipendentista”, c’è un chiaro spostamento a sinistra, in primo luogo con un travaso di intenzioni di voto da CiU verso ERC (evidente nei sondaggi fatti prima della formazione di Junts pel sì), ma nell’ultimo mese anche da ERC verso la CUP. Si è presentata in chiave di rottura (nazionale e sociale) e hanno chiaramente vinto, portando avanti un messaggio anticapitalista.
Alla CUP manca il radicamento nei quartieri operai, ma nonostante ciò è riuscita ad avanzare anche qui, soprattutto grazie al voto giovanile.
La CUP ha impostato la sua campagna con un discorso anticapitalista molto attrattivo per i giovani. Non si sono solo limitati a fare una campagna nazionalista, ma sono stati identificati chiaramente come il voto anti sistema. Il suo programma sociale era molto simile a un programma socialista. È un movimento presente nei quartieri, tra la popolazione e con attività reali. Molti di coloro che a Barcellona avevano votato Barcelona en comù, capeggiata da Ada Colau, ora hanno votato per la CUP. Il suo successo è quello dell’anticapitalismo. Si sono presentati per buttare giù Mas e iniziare un processo costituente, senza aspettare il resto della Spagna. È la dimostrazione di come si può crescere dichiarandosi apertamente anticapitalisti. In pratica la totalità dei giovani indipendentisti e anticapitalisti ha votato la CUP.
PSC-PSOE
Il PSC-PSOE può tirare un sospiro di sollievo solo perché non è stato superato da Catalunya Sì que es Pot, però queste sono state le sue peggiori elezioni catalane della storia, dopo che aveva già attraversato un processo di perdita di consensi molto importante per un partito che fino a pochi anni fa aveva 50 deputati all’interno del parlamento catalano.
Inoltre, considerando anche l’incremento dell’affluenza, continua la perdita anche in distretti operai come quello di Vallès Occidental, così passa da 20 a 16 seggi.
Solo l’inconsistenza di Catalunya sì que es Pot gli ha evitato una debacle maggiore, permettendogli di tenere una buona quantità di suoi vecchi elettori che fino a un mese prima delle elezioni guardavano a Podemos.
Catalunya Sì que es Pot
I risultati sono molto negativi per questa formazione (che comprende Podemos, Iniziativa per la Catalogna-Verdi e EuiA -Izquierda Unida in Catalogna, ndt) che aveva aspettative molto alte da queste elezioni, specialmente dopo la pubblicazione, il 25 giugno, di un’inchiesta da parte della stampa regionale catalana che le dava 30 deputati, avvicinandola ai sondaggi elettorali per l’ancora esistente CiU. È importante segnalare che la stessa inchiesta dava al PSC solo sette seggi.
La data del 25 giugno è significativa per due ragioni: in primo luogo, nei giorni precedenti si sono formati decine di comuni di unità popolare con decine di migliaia di persone scese per le strade ad applaudire e cantare la propria allegria senza limiti, come nel caso di Barcellona. La popolazione era trepidante e iniziava a pensare di ricreare lo stesso processo a livello statale, però fino ad oggi Podemos non ha fatto nulla in tal senso, smobilitando il tutto.
In secondo luogo, negli stessi giorni, Alexis Tsipras aveva lanciato il referendum in Grecia contro le misure di austerità imposte dalla Troika, al quale il popolo greco ha risposto con un rotondo 62% di No dieci giorni più tardi.
L’arrendevolezza mostrata da Tsipras durante i giorni successivi al referendum e l’appoggio incondizionato dai massimi dirigenti della sinistra spagnola, hanno generato un nuovo potente messaggio: no podemos (non possiamo). L’effetto immediato è stata la demoralizzazione.
È certo che da circa tre mesi erano molto presenti, in Catalogna e nel resto della Spagna, dibattiti politici su questioni sociali, e dunque il problema nazionale catalano era passato in secondo piano. Senza dubbio, la politica incendiaria del PP, da luglio fino al giorno delle elezioni, ha radicalizzato e polarizzato il problema nazionale catalano fino all’estremo, facendolo passare in primo piano all’interno del dibattito politico, togliendo spazio al dibattito generale sui problemi sociali derivanti dalla crisi capitalista. Questo ha pesato sulle elezioni catalane ed è un fatto che Podemos non ha più controllato.
È anche vero che i dirigenti di Podemos e Catalunya Sì que es Pot (CSQP) non possono sottrarsi alle proprie responsabilità su tutti gli aspetti del dibattito politico, inclusa la questione catalana: questo si che è dipeso da loro.
Prima di proseguire l’analisi sulle ragioni del fallimento di CSQP, dobbiamo apprezzare i dirigenti di Podemos almeno su un aspetto. Sono stati gli unici nella sinistra, da almeno 40 anni, a prendere posizione in difesa del diritto di autodeterminazione per la Catalogna, il Paese Basco e la Galizia, e a difenderla pubblicamente durante i comizi e le assemblee di massa. Questo ha una grande importanza.
I dirigenti di PSOE e PCE abbandonarono la difesa di questo diritto almeno 40 anni fa, permettendo che le idee del nazionalismo reazionario spagnolo di “una Spagna unica, grande e libera” penetrassero in tutti i settori della classe operaia e nella popolazione in generale. In questo senso, il lavoro dei dirigenti di Podemos a favore del “diritto a decidere” per la Catalogna, pur con tutti i limiti con cui lo espongono, è importante per rinforzare all’interno della classe operaia spagnola l’appoggio e la simpatia verso i diritti democratico-nazionali del popolo catalano, appianando le diffidenze degli uni verso gli altri, e anche per rafforzare l’unità della classe operaia spagnola, al di sopra delle divisioni nazionali.
Nonostante ciò, i limiti di Podemos nel formulare questa parola d’ordine durante la campagna elettorale sono stati importanti. In primo luogo, nella propaganda ufficiale, CSQP ha vincolato il “diritto a decidere” della Catalogna a un processo costituente nell’insieme dello stato spagnolo. Però la maggior parte del popolo catalano voleva e vuole decidere adesso e non ha chiaro che questo processo di rottura cammina in parallelo col resto dello Stato.
In secondo luogo, durante l’inizio della campagna di propaganda di CSQP a volte sembrava emergere che la Catalogna avrebbe dovuto chiedere il permesso al resto dello stato spagnolo per esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione. La nostra posizione è che CSQP avrebbe dovuto dire molto chiaramente che se fosse arrivata al governo a Barcellona, avrebbe immediatamente convocato un referendum sull’indipendenza e che ne avrebbe riconosciuto la legalità, nonostante ciò che avrebbe potuto dire la Corte Costituzionale, appellandosi alla mobilitazione popolare in tutto lo stato nel caso in cui ci fosse stato l’intento da parte dell’apparato statale di reprimere fisicamente e dal punto di vista giudiziario la popolazione e/o qualche membro del suo governo. Questo avrebbe sicuramente dato credibilità maggiore a tutti i discorsi di Pablo Iglesias e degli altri dirigenti a favore del diritto della Catalogna a decidere il proprio futuro.
Inoltre, legato a quello che abbiamo spiegato prima, crediamo che la critica e la denuncia del nazionalismo spagnolo e le minacce e le provocazioni di Rajoy contro la Catalogna e i suoi diritti democratico-nazionali averebbero dovuti essere molto più forti sul versante agitativo, invece di limitarsi a porre sullo stesso piano Rajoy e mas.
Anche le modalità di nascita di CSQP hanno giocato un ruolo negativo. Non avevano nulla a che vedere con la nascita di Barcelona en comù, riuscita nell’intento di mettere assieme migliaia di attivisti con un processo dal basso. Il ruolo di una militante popolare riconosciuta come Ada Colau, unito alla partecipazione di decine di organizzazioni popolari e locali, con migliaia di attivisti, è stato determinante per superare la forza conservatrice degli apparati dei partiti che hanno partecipato alla nascita di Barcelona en comù.
Allo stesso tempo, la formazione di CSQP, con riunioni solo tra i dirigenti di Podemos, ICV e EuiA praticamente convocate alle spalle dei loro militanti, è stata vista da molti attivisti di Podem (sezione catalana di Podemos) e di Barcelona en comù, come una manovra dall’alto, burocratica e senza una reale partecipazione della base. Ciò ha causato una profonda diminuzione della militanza, tanto che la maggior parte degli attivisti di Barcelona en comù e di Podem non ha partecipato alla campagna elettorale. Basta solo dire che la riunione dei circoli di Podem che avrebbe dovuto preparare le elezioni, ha visto la partecipazione di solo 40 attivisti da tutta Barcellona, e la maggior parte di questi ha criticato aspramente la direzione del partito. Solo durante gli ultimi giorni c’è stata una leggera inversione di tendenza.
La percezione della maggioranza degli attivisti di Podem e Barcelona en comù, è che la campagna elettorale di CSQP è stata diretta dall’apparato di ICV -contestato largamente dai militanti più onesti- con l’appoggio esterno dei dirigenti nazionali di Podemos come Pablo Iglesias e Inigo Errejon.
I dirigenti di Podemos credevano, in modo deplorevole, che per duplicare il successo ottenuto con Ada Colau, bastava presentare una lista comune tra Podem, ICV e EuiA. Proprio per questo, il risultato negativo di CSQP non è il fallimento di Podemos come movimento, ma il fallimento della pretesa di costruire Podemos come se fosse solo una macchina da guerra elettorale e nulla più, per citare la famosa frase del compagno Errejon.
Solo creando un movimento politico vero e proprio potremo abbattere la classe dominante e vincere; non possiamo farlo con un computer per mezzo del quale votare e nulla più di questo. Un movimento politico vivo e reale si può creare solo stando all’interno dei quartieri, con circoli pieni di attivisti che discutono con la convinzione del fatto che le loro opinioni contano, e che possono decidere ed emendare la linea politica dell’organizzazione.
Altrettanto scorretta è l’ostinazione della direzione di Podemos di volersi identificare con Tsipras e Syriza, cosa che gli ha fatto perdere l’appoggio di buona parte dei giovani più radicalizzati e dei lavoratori più coscienti, ma anche di quei lavoratori comuni che hanno visto Tsipras non risolvere nessuno dei problemi più urgenti della classe lavoratrice greca e, nei fatti, accettare di applicare gli stessi tagli che lui stesso precedentemente criticava alla destra e alla socialdemocrazia greca. Le conclusioni che possono trarre questi lavoratori sono ovvie: piuttosto che eleggere una copia venuta male -che porterà solo a fasciarsi la testa- preferisco l’originale, che è anche più prevedibile. Si potrà pensare che questo ragionamento sia ingiusto, ma va riconosciuto che è pieno di logica.
Inoltre, ha pesato l’ambiguità della critica verso Mas e Rajoy da parte di CSPQ e Pablo Iglesias. “Certo, apprezziamo la vostra critica alla politica di entrambi. Ma che cosa state proponendo esattamente?”. Questa mancanza di concretezza nel proporre misure che portino davvero a un cambiamento immediato e reale delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, ha generato anch’essa diversi dubbi sull’utilità del voto a CSQP e Podemos. La realtà è che nonostante CSQP abbia ottenuto poco meno di mille voti in più rispetto a ICV nel 2012, ha perso una percentuale di voto (1%) e di possibili votanti che hanno deciso di transitare verso la CUP, alla sua sinistra, e verso il PSC, alla sua destra, proprio per le ragioni qui spiegate.
Prospettive
L’aspetto peggiore di queste elezioni catalane è la forte ascesa del partito di destra Ciudadanos nelle zone operaie, che potrebbe avvelenare ancor di più la questione nazionale catalana, vista la sua retorica non separatista reazionaria, fomentando una divisione della classe operaia su linee nazionali e tra la popolazione catalana favorevole o contro l’indipendenza.
Si deve urgentemente spiegare che Ciudadanos è uno strumento tra le mani dei nostri nemici di classe, cioè dei banchieri e dei grandi imprenditori; però è altrettanto urgente costruire un’alternativa di sinistra che dia soluzioni concrete ai problemi sociali e al problema nazionale catalano.
D’altra parte, non ci si deve aspettare nessun cambiamento rilevante prima delle elezioni politiche previste a dicembre. Nel frattempo, sia il PP sia Junts pel Sì, manterranno le loro posizioni senza indietreggiare, al fine di sperare di ottenere il miglior risultato possibile per entrambi.
Dall’altro lato, il risultato delle elezioni catalane, dove i partiti indipendentisti non hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei voti e CDC-ERC hanno perso seggi, spiana la strada a Mas, che vorrà parcheggiare il tema dell’indipendenza e iniziare una negoziazione col futuro governo spagnolo al fine di stringere un accordo precario che dia una via d’uscita finanziaria al conflitto catalano (semplicemente apporterà meno denaro alla banca centrale spagnola) e un cambio di facciata alla Costituzione, riconoscendo solamente le “singolarità” della Catalogna. Però questo non sarà sufficiente per le masse catalane che vogliono l’indipendenza e sarà visto come un tradimento, cosa che porterà in crisi il movimento nazionalista.
Non è detto che Mas potrà accedere alla presidenza della Generalitat (il Parlamento catalano) così facilmente come dice e pensa. L’appoggio della CUP è necessario, ma questi ultimi hanno già dichiarato che voteranno contro qualsiasi misura proponga Mas, dato che è un rappresentante dei tagli, dell’azzeramento dello stato sociale e della corruzione; anche se non ha scartato l’ipotesi di appoggiare un governo delle “forze nazionali catalane” senza Mas come presidente. Il dubbio è: potrebbero, in questo senso, appoggiare anche un governo con membri borghesi di CDC? Se lo faranno, saranno molto discreditati agli occhi di chi pensava fossero dei veri militanti anticapitalisti. D’altra parte, le ultime dichiarazioni della CUP a favore di una collaborazione parlamentaria con CSQP contro l’austerità, e le dichiarazioni simili da parte di Pablo Iglesias sono segnali molto positivi. Senza dubbio la CUP sarà sottoposta a una grande pressione che vede da una parte la piccola borghesia nazionalista catalana e dall’altra la classe operaia. Quello che faranno porterà a uno sviluppo ulteriore del movimento oppure una divisione di questo su linee di classe.
Non si può neanche scartare l’ipotesi il PSC si astenga dal voto permettendo così l’elezione di Mas in nome della “governabilità della Catalogna” evitando nuove elezioni. Questo potrebbe essere parte di un accordo che porti a un uscita dal conflitto nazionale in caso di governo del PSOE dopo le elezioni di dicembre.
Comunque si svilupperanno gli eventi delle prossime settimane e mesi, è certo che la vita politica catalana e spagnola è molto instabile. La borghesia spagnola, il suo apparato e i suoi partiti non permetteranno mai un referendum per l’autodeterminazione della Catalogna. È insita nella sua tradizione reazionaria, nella sua dipendenza dal prestigio nazionale e nel suo terrore morboso che si generi un movimento di massa che metta a repentaglio i suoi poteri e i suoi privilegi.
Però nemmeno la borghesia catalana e il suo partito (CDC) possono offrire una via d’uscita. Supponendo che in queste elezioni il voto indipendentista avesse superato il 50% dei voti, come si sarebbe mosso il CDC? Come avrebbe reso effettiva l’indipendenza? Avrebbe chiamato l’insurrezione popolare? Non sta nel DNA della borghesia e in nessun’altra sua organizzazione una rivoluzione con le masse in piazza. Ad un certo punto CDC avrebbe tradito il movimento, inevitabilmente. ERC avrebbe potuto rimpiazzarla? Però la piccola borghesia è molto meno inconsistente e ha molta meno fiducia in sé rispetto alla borghesia, per questo Junqueras non abbandonerà Mas, nonostante tutta la corruzione, i tagli, le dilazioni, ecc. Non muoverà mai un dito senza il fratello maggiore al fianco e alla fine cadranno insieme.
Un’alternativa socialista e rivoluzionaria
Secondo Lucha de Clases c’è una sola soluzione realista. La classe operaia catalana e spagnola devono prendere nelle proprie mani il problema della questione nazionale. Le organizzazioni di sinistra devono essere alla testa di questo percorso, iniziando da Podemos. La condizione è però quella di evitare la confusione e le ambiguità. C’è necessità di una politica chiara e ferma, in Catalogna come nel resto della Spagna.
Sì al diritto di autodeterminazione per la Catalogna. Sì a un processo costituente in Catalogna e in Spagna che garantisca un cambiamento reale di questa società putrida e che non garantisce diritti sociali e democratici. Sì a un programma di riforme sociali che garantisca lavoro, sanità, pensioni, istruzione per tutti.
Però questi tre punti devono essere vincolati a una proposta di autentica sovranità popolare, una proposta che cancelli le forze reazionarie che ad essa si oppongono e che punti al benessere delle famiglie operaie e del popolo impoverito.
Tutto questo si potrà compiere solo se la maggioranza della società si appropria dei nodi fondamentali dell’economia, di ciò da cui dipende il benessere della popolazione: le banche, le grandi imprese e terreni, che devono essere espropriati senza indennizzo (eccezion fatta per i piccoli azionisti e risparmiatori) e posti sotto il controllo dei lavoratori, con un piano di produzione che soddisfi le reali necessità della società. Questa è l’unica alternativa: vincolare la risoluzione del problema nazionale al problema sociale più ampio tramite un’alternativa socialista e rivoluzionaria. Non c’è altra via.