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12 Aprile 2019“Non credo che tra il 2019 ed il 2020 ci sarà in Algeria alcuna profonda crisi sociale. Nessuno contesta veramente il presidente, né tra i politici né tra la popolazione”
(Lakhdar Brahimi, ex-mediatore dell’ONU e della Lega Araba, 9 dicembre 2018)
Nella nostra epoca, la cecità dei politici e degli economisti al servizio della classe dominante trova rarissime smentite. Pochi mesi dopo le baldanzose rassicurazioni di Brahimi, dunque, l’Algeria è immersa nel più profondo movimento di contestazione sociale dopo l’indipendenza. L’(ex) onnipotente presidente della repubblica Bouteflika è stato costretto alle dimissioni. Appena una settimana prima dello scoppio delle mobilitazioni , Sidi Saïd, segretario del sindacato, l’UGTA, aveva ammonito: “Lo storico combattente Bouteflika deve vincere al primo turno il 18 aprile. Puniremo quelli che non porteranno le loro famiglie a votare”. Dopo i primi cortei, per parte sua, il capo di Stato maggiore dell’esercito, Gaïd Salah, aveva minacciato i manifestanti con uno scenario ‘alla siriana’.
Ma la forza del sollevamento di massa ha indotto tutte le articolazioni della classe dirigente a scaricare Bouteflika nella speranza di non essere travolte. Curiosamente, è stato proprio Salah a gestire la manovra. Bouteflika si è ritirato ed il presidente del Senato, Bensalah, è l’autorità politica suprema incaricata di organizzare elezioni entro 90 giorni. Bensalah proverà ad organizzare elezioni su misura per assicurare la piena continuità del potere. Quanto ci riuscirà, è da vedere. Lo stesso arresto di Heddad, ex capo del padronato algerino, è più che altro una sorta di concessione al movimento di massa. Il legittimo ambiente festivo non è durato molto. La gran parte dei giovani e dei lavoratori che continuano a scendere massicciamente in piazza sentono l’odore dell’inganno e comprendono che “il sistema” sta provando a confiscargli la vittoria.
D’altra parte, 6 settimane di lotta hanno innescato una dinamica difficile da fermare. Le università sono diventate luoghi di libero dibattito. La gioventù ha preso la parola. Nella base del sindacato il processo è analogo: lo slogan delle dimissioni per Sidi Saïd è tra i più scanditi; le sezioni UGTA dell’area industriale di Algeri, Rouïba, Bejaia e Tizi-Ouzou sono alla testa di questo movimento. Più in generale, nei cortei risuona lo slogan “Il popolo vuole che tutti siano sottoposti a giudizio”, versione algerina del “Se ne vadano tutti!”. Simbolicamente, invece, è acclamata la figura di Alì la Pointe, eroe della Battaglia di Algeri e della lotta di liberazione contro il colonialismo francese.
L’imbroglio liberale
Sorpresi da avvenimenti che non riescono a comprendere, i commentatori liberali hanno rapidamente tirato fuori la consueta retorica, identica a quella impiegata per ‘spiegare’ la Primavera Araba del 2011-2012. Milioni di persone, secondo questa congrega di benpensanti, starebbero lottando per ripristinare lo ‘stato di diritto’ guidati dalla ‘società civile’, di norma rappresentata da giovani uomini d’affari, insofferente della tutela di uno Stato soffocante e desiderosa di liberalizzazione.
Questa propaganda non regge al minimo esame dei fatti. E non certo perché in Algeria manchi un apparato statale vorace, corrotto e privilegiato. Sulle ragioni che hanno portato milioni di persone comuni in piazza, sfidando la repressione, preferiamo dare la parola agli operai di Rouïba. La loro sezione sindacale ha dichiarato di lottare per un cambiamento che “difenda la proprietà inalienabile del popolo sulle ricchezze naturali del paese, riabiliti il ruolo dello Stato nello sviluppo socio-economico e nella lotta contro la povertà e le diseguaglianze. Un sistema che prenda le distanze dagli oligarchi e ridia valore al valore, mettendo l’uomo al centro. Un sistema che garantisca le libertà individuali, collettive e sindacali”. Qui, talora in forma ancora generica, ci sono le aspirazioni profonde del popolo. Del resto, già nel 2016-17 c’erano state importanti mobilitazioni di giovani disoccupati nelle aree interne del sud e di insegnanti e dipendenti pubblici contro le politiche di austerità e tagli al bilancio, attenuate nel 2018 proprio per paura dell’estendersi del conflitto. Nell’ottobre 2017 era stata la volta degli operai delle acciaierie CEVITAL di Rouïba, replicando quello che fu lo sciopero tessile di Mahalla per la rivoluzione egiziana.
Insomma, nulla a che vedere coi settori della classe dominante, come quello del magnate Rebrab, che vorrebbero approfittare della transizione per accelerare il processo di privatizzazione dell’economia e di distruzione dello stato sociale, a partire dai sussidi sui beni di prima necessità, residuo del movimento di liberazione nazionale. Ma le masse algerine sono attente: quando ha provato ad arringarle dal balcone della sede del suo partito durante un corteo, l’affarista franco-algerino Nekkaz, ex candidato liberale alla presidenza, è stato oggetto di fischi e lancio di oggetti…
Contro l’imperialismo
Il ministro degli Esteri francese s’è augurato che la transizioni continui nell’ordine. Tradotto in volgare, senza che gli interessi dell’imperialismo vengano toccati. E ce ne sono parecchi.
Il 20% della produzione energetica dell’Algeria è assicurata direttamente da grandi multinazionali, tra le quali ENI, Repsol, Total e Statoil. Molte imprese estere, come l’italiana Bonatti, fanno affari d’oro nella fornitura di servizi ad alta tecnologia alle aziende estrattrici. L’ENI, entrata in Algeria nel 1981, è presente con 32 permessi sviluppo di giacimenti nel bacino del Berkine del Nord. Gli ultimi anni, poi, hanno registrato un ingresso massiccio di capitale cinese, soprattutto nel settore delle infrastrutture. Dal 2000 al 2014 le imprese cinesi hanno costruito 13mila km di strade e 3mila di ferrovie. Ma anche ponti, dighe e raffinerie. Ma il vero festino, per l’imperialismo, verrebbe dall’ulteriore privatizzazione di Sonatrach, posseduta ancora al 51% dallo Stato. La compagnia nazionale degli idrocarburi è il gioiello dell’economia algerina, in un settore ad alta concentrazione di capitale che costituisce il 97% dell’export del paese ed il 35% del suo PIL.
La dipendenza dell’Algeria dall’imperialismo e dal mercato mondiale – il paese importa quasi tutto ciò di cui necessita – è totale. La stessa crisi politica è stata scatenata dal crollo del prezzo del greggio e del gas, che nel 2011 fornivano 71 mld di dollari contro i 35 del 2018. La lotta per mettere le risorse del paese al servizio dei bisogni della popolazione, a partire da una completa rinazionalizzazione di Sonatrach, è la sola via d’uscita. Più che mai, le avanguardie algerine necessitano un loro partito per contrastare i falsi amici della rivoluzione.