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15 Marzo 2017Le elezioni del 2 marzo per eleggere il parlamento dell’Irlanda del Nord, hanno frantumato tutte le vecchie certezze racchiuse nel settarismo monolitico formatosi dall’accordo del Venerdì Santo, che ora è in crisi. Le elezioni non hanno fatto nulla per smuovere lo stallo politico. Hanno invece portato in superficie tutte le contraddizioni del Nord, che si riflettono in un profondo cambiamento nel rapporto di forze, con l’unionismo che per la prima volta dalla separazione dell’isola perde la maggioranza.
Fragilità
Il Sinn Féin (SF) e il Partito Unionista Democratico (DUP) sono ancora una volta i principali partiti premiati dalle urne. Anche se il DUP avverte la pressione del Sinn Féin per scaricare Arlene Foster come Primo Ministro, è improbabile che uno dei due partiti rinunci con leggerezza aun “accordo” che ha permesso loro di dominare le rispettive comunità. Tuttavia, date le contraddizioni del Nord, in particolare tra gli unionisti, significa che qualsiasi accordo sulla condivisione del potere appare più fragile di quanto non sia stato per molti anni.
I tories indubbiamente non vogliono tornare al controllo diretto da parte di Londra. Analogamente, né il DUP né il SF vorrebbero rivivere le ricadute politiche da una tale mossa, nel timore di perdere il controllo della situazione nel caso venga imposto il dominio diretto.
Tuttavia, anche se formalmente cambierà poco, i risultati di queste elezioni stanno causando nervosismo nella classe dominante. Il Financial Times mette in guardia che questa elezione “rientra perfettamente nel modello dei sondaggi dirompenti rilevati altrove, a partire dallo scorso anno con la decisione del Regno Unito di uscire dall’UE e dalla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti … La questione va gestita con la massima cura”.
Con una crescita massiccia del voto al Sinn Féin e la stagnazione del voto unionista, per la prima volta dalla separazione l’unionismo ha perso la sua maggioranza. In realtà, Stormont (il Parlamento) è ora equamente diviso, con 40 unionisti, 40 nazionalisti e 10 di altri partiti.
Queste elezioni rivelano uno spostamento deciso negli umori politici dell’Irlanda del Nord – mettendo a nudo la completa impasse dell’intero establishment ed in particolare dell’unionismo come l’ideologia della borghesia protestante. Anche se il DUP rimane il partito di maggioranza in parlamento (con 28 seggi), il Sinn Féin è ora dietro solo di un soffio, con 27 seggi. Di fatto il Sinn Féin non è diventato partito di maggioranza per poco più di 1.100 voti. Da quando l’imperialismo britannico ha diviso l’Irlanda del Nord dal resto dell’Irlanda, si è sempre pensato che l’unionismo avrebbe mantenuto la maggioranza per sempre. Quella vecchia certezza, insieme a mille altre di lunga data, è stata ora frantumata nel contesto di una profonda crisi del regime.
Unionismo sclerotizzato
Come abbiamo spiegato in precedenti articoli la crisi dell’establishment nord-irlandese riflette la crisi più ampia del capitalismo. Fino a quando l’accordo del Venerdì Santo assicurava pace e stabilità politica e il boom del capitalismo faceva sì che si potessero lasciare alla classe operaia almeno le briciole, la configurazione politica in Irlanda del Nord poteva godere di un minimo di stabilità. Ora però la dispensa è vuota, con il Nord che dipende dai posti di lavoro del settore pubblico più di qualsiasi altra regione del Regno Unito ed è quindi maggiormente colpito dall’austerità. In aggiunta, la Brexit ha completamente destabilizzato la situazione politica.
La proverbiale “goccia che ha fatto traboccare il vaso” è stato lo scandalo che ha travolto il Renewable Heating Initiative (RHI, un sistema di incentivi per la produzione di energia tramite fonti rinnovabili) che abbiamo analizzato in un altro articolo, Il DUP e il suo leader, Arlene Foster (il principale architetto della RHI), una volta smascherati e con niente da offrire, hanno assunto una posizione sempre più settaria e inflessibile per spaventare le comunità unioniste e tenerle in riga. La loro intera campagna elettorale si è tinta di un violento allarmismo. L’elettorato unionista era stato avvisato che un voto che non fosse per il DUP avrebbe solo aiutato il Sinn Féin e il “programma radicale” di Gerry Adams. Nel frattempo, la comunità nazionalista veniva paragonata ai “coccodrilli” che sarebbero tornati solo per avere più concessioni rispetto alla loro modesta richiesta di parità di trattamento per la lingua irlandese.
Mentre il voto per il DUP ha sostamzialmente tenuto, il grande sconfitto è quello che un tempo era il partito dominante cioè l’Ulster Unionist Party (UUP) che è completamente crollato. Come stiamo vedendo in tutto il mondo, il cosiddetto “centro” si sta sgretolando (per quanto, data la sua storia, sia difficile immaginare l’UUP come un partito di “centro”). Immaginare una ripresa nelle urne era solo un volo di fantasia dell’UUP. Nel frattempo l’altra faccia della medaglia pagata per l’aggressività del DUP, è stata – come ha sottolineato Gerry Adams – “di radicalizzare i giovani per il Sinn Féin”.
Il voto nazionalista è cfresciuto considerevolmente in queste elezioni, con una affluenza complessiva del 65%, la più alta in qualsiasi elezione del parlamento con la sola eccezione del 1998. L’ironia è che nel contesto di un diffuso disgusto per i politici nel Parlamento – in un clima descritto “tra l’apatia e la rabbia” – le settarie regole del gioco a Stormont e l’assenza di una chiara alternativa di classe hanno portato ad indirizzare il voto verso i partiti che solo fino a ieri erano insieme al governo.
Il culmine dell’ironia è che, dopo decenni di lotta armata, seguiti da un “Processo di pace” fermo in un vicolo cieco settario da decenni, i leader dei principali partiti repubblicani e unionisti sono bloccati in un Parlamento che ha poco più controllo sul futuro dell’Irlanda del Nord di quanta ne abbia nell’organizzare la raccolta rifiuti e i pasti scolastici. Ci sono profonde contraddizioni che stanno alla base di questioni come lo scandalo dell’RHI. Nel frattempo i bambini soffrono doi denutrizione, i genitori e i giovani si trovano senza lavoro e quella che una volta era la potente economia del Nord, si trova a marcire tra i discorsi sulla Brexit e quelli riguardanti l’hard borders (il ripristino del confine tra le due Irlande in seguito alla Brexit).
Hard Brexit e hard border
Nonostante gli sforzi involontari di Arlene Foster di agire come un sergente di reclutamento per il Sinn Féin, la principale forza che ha condotto all’improvviso cambiamento politico e che incombe su tutto il resto, è la questione della Brexit. Che cosa questo significhi per l’Irlanda del Nord e per le future relazioni della Gran Bretagna con l’Irlanda in generale, rimane nebuloso – ma alcune cose stanno diventando evidenti. Sebbene né gli irlandesi né la classe dominante britannica abbiano alcun interesse nella creazione di un hard border, si sta cercando sempre più l’impossibile quadratura del cerchio di una Irlanda del Nord al di fuori del mercato comune e di quella del Sud all’interno, senza un qualche tipo di confine a dividere le due.
I politici e i commentatori si contorcono e si dimenano sul modo in cui si potrebbero ripristinare tali confini: si potrebbe forse fare un confine “virtuale”? Altri hanno suggerito di fare i controlli doganali a 10 miglia (circa 16 km) dal confine per mantenere l’illusione delle frontiere aperte. Tali “soluzioni” sarebbero ridicole in qualsiasi altra circostanza.
L’impatto sul commercio sarebbe devastante e la vita di coloro che vivono vicino al confine diventerebbe insopportabile. Togliendo la libera circolazione di merci e persone, si porrebbe fine da un momento all’altro a decenni di integrazione. A questo possiamo aggiungere numerosi altri effetti economici dovuti alla Brexit, come ad esempio il taglio dei fondi UE (di cui l’Irlanda del Nord è un beneficiario), il crollo della sterlina e mille altri effetti. Alcuni hanno anche minacciosamente messo in guardia sulla possibilità che i posti di controllo doganale diventino dei bersagli per le bombe dei gruppi repubblicani dissidenti, ponendo così la necessità di controllarli tramite l’utilizzo di truppe britanniche, con tutte le implicazioni che questo avrebbe. Non c’è alcun desiderio di un ritorno agli spargimenti di sangue avuti in Irlanda del Nord nel passato, ma la crescente intensità della crisi capitalista aleggia come un’ombra maligna sul futuro.
Quale futuro?
Queste elezioni segnano un momento di svolta nel declino dell’unionismo. Avendo perso la sua storica maggioranza, con il Sinn Féin in crescita e con il capitalismo britannico impantanato nella crisi, prima o poi si porrà la questione di un referendum riguardo ai confini. Con le trattative sulla Brexit in procinto di iniziare e con l’Irlanda del Nord esclusa dal tavolo delle trattative, la sensazione che il processo venga imposto sulle minoranze nazionali crescerà. A causa delle feroci politiche di austerità portate avanti dai principali partiti, le quotazioni del Sinn Féin al sud sono in crescita e probabilmente se (e quando) verrà convocato un tale referendum si rafforzeranno.
Il mantenimento dell’unione con la Gran Bretagna non offre chiaramente nulla se non ulteriore austerità e l’instabilità politica e sociale. Tuttavia, dobbiamo dire che il capitalismo irlandese non è in uno stato di salute migliore e l’unificazione su basi capitaliste non risolverà le questioni di fondo che sono alla base della questione nazionale. L’esistenza di quel mostro di Frankenstein che è il settarismo, quello che Connolly definiva il “Carnevale della reazione”, blocca la strada verso un’Irlanda unita. Sopravvive oggi sulle stesse fondamenta del bisogno e della miseria che il capitalismo crea in abbondanza e si rivelerà insormontabile fino a quando la classe operaia non sarà unita su una chiara base di classe.
Solo aggredendo alla radice il problema – il sistema capitalista – possiamo unire la classe operaia attorno a degli interessi comuni. Oggi più che mai è necessario un partito dei lavoratori, organizzato su principi rivoluzionari e socialisti. La crisi dell’unionismo lo mette chiaramente in evidenza. Solo su queste basi possiamo costruire una vera soluzione: una Irlanda unita e socialista di tutte le 32 contee, collegata a una federazione volontaria e socialista con Scozia, Inghilterra e Galles.