Dietro il genocidio ci sono i profitti dei padroni
24 Settembre 2025
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24 Settembre 2025
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Dallo Sri Lanka al Nepal – Lezioni dell’ondata rivoluzionaria

di Ben Curry (da www.marxist.com)

Il giorno prima, un paese sembra calmo e la cricca dominante saldamente insediata al potere. Il giorno dopo, le masse rivoluzionarie sono davanti al rogo del palazzo del parlamento. La polizia è scomparsa, i parlamentari sono fuggiti e con loro il primo ministro. Le fotografie e i video che ci sono recentemente arrivati dal Nepal sono sbalorditivi. Sono anche sorprendentemente simili alle scene che abbiamo già visto in Sri Lanka, Bangladesh, Kenya e Indonesia.

Qual è il significato di questi avvenimenti? Alcuni a sinistra, colpiti da queste scene, si lasciano trascinare dalla corrente senza fermarsi un attimo per domandarsi dove essa sia diretta. Si comportano come cheerleader del movimento di massa, che è l’ultima cosa di cui le masse hanno bisogno in una rivoluzione.

Altri guardano il tutto con la massima avversione. Vedono il Nepal, lo Sri Lanka o qualsiasi altro di questi esempi, e lo paragonano allo schema che hanno scolpito nella propria testa di come una rivoluzione dovrebbe essere.

Non trovano alcun soviet. Non trovano i consigli operai. Al contrario, trovano le masse organizzate, se lo sono in qualche misura, attorno a direzioni venuti dal nulla o persino attorno a semplici hashtag sui social media. Non trovano le bandiere rosse. Trovano bandiere srilankesi, keniote, bengalesi e nepalesi.

Osservano che le poche rivendicazioni di questi movimenti sono confuse e limitate, specialmente se paragonate al programma ben definito della rivoluzione socialista. E sottolineano il fatto indiscutibile che, finora, queste rivoluzioni non hanno ottenuto quasi nessun cambiamento fondamentale. Dichiarano con disprezzo che queste non sono per nulla delle rivoluzioni, poi tornano a dormire e chiedono di essere svegliati quando arriva la vera rivoluzione.

Come autentici comunisti, non possiamo permetterci né di lasciarci impressionare dalle apparenze, né possiamo aspettarci che le rivoluzioni rientrino in schemi preconcetti. Dobbiamo cogliere l’essenza degli avvenimenti concreti e trarne lezioni concrete.

Qual è il nostro atteggiamento di fronte a questi sviluppi?

Queste rivoluzioni, dallo Sri Lanka al Nepal, hanno tutte le proprie caratteristiche specifiche. Ma ormai stanno emergendo paradigmi chiari e inconfondibili. Prese insieme, esse ci dicono molto del carattere dell’epoca in cui siamo entrati.

La forza delle masse

La prima cosa che dobbiamo dire è che non avremmo potuto chiedere di più in termini di sforzi intrapresi ed eroismo da parte delle masse rivoluzionarie. Esse hanno mostrato di quale enorme forza nascosta dispongano.

Tre anni fa, quando il popolo si è sollevato e si è diretto verso il palazzo presidenziale in Sri Lanka, che è stato il primo tassello del domino a cadere, la polizia è stata spazzata via come mosche. I Rajapaksa, la famiglia al governo dello Sri Lanka, sono fuggiti. Nessuna altra forza nella società poteva anche solo lontanamente eguagliare questo potere.

Il regime si è ritrovato inerme e sospeso a mezz’aria. La rivoluzione avrebbe potuto schiacciare il regime in un solo colpo. Di fatto, il potere era realmente nelle mani delle masse nelle strade. Tutto ciò che rimaneva da fare era dichiarare il rovesciamento del vecchio regime. Ma le masse non erano consapevoli di detenere il potere e non c’era alcun partito abbastanza autorevole da prendere il potere in loro nome.

Così la stessa sera in cui si è ottenuta questa straordinaria vittoria, non è rimasto alle masse rivoluzionarie nient’altro da fare se non di abbandonare il palazzo presidenziale e tornarsene a casa. Dopodiché, il vecchio e disprezzato parlamento, composto dalla maggioranza del partito dei Rajapaksa, ha selezionato il sostituto per la carica di presidente.

Il 5 agosto 2024, in Bangladesh il regime si è trovato anch’esso sospeso a mezz’aria. La polizia, che aveva scatenato un regno del terrore nelle settimane precedenti, ha dichiarato di essere in “sciopero”. Infatti, erano usciti di scena, terrorizzati dalla rappresaglia delle masse. Su 600 stazioni della polizia nel paese, 450 erano state ridotte ad un cumulo di cenere. L’odiata premier Sheikh Hasina era stata messa sopra un elicottero dai vertici militari e fatta uscire dal paese.

Le masse rivoluzionarie avevano il potere e avrebbero potuto organizzare il proprio governo rivoluzionario. Ma, di nuovo, esse non erano consapevoli della propria forza. Il vecchio regime era stato sconfitto. I vecchi generali e i vecchi magistrati avrebbero dovuto e potuto essere messi da parte. Invece, i leader studenteschi sono andati a negoziare con i generali sconfitti. Si sono messi d’accordo per insediare un governo ad interim guidato da un ex banchiere, in cui i leader studenteschi avrebbero assunto incarichi ministeriali simbolici.

In Kenya, dopo tutti i sacrifici, gli spargimenti di sangue, si è ottenuto ancora meno. Il presidente Ruto rimane avvinghiato al potere.

Il dilemma cruciale in tutti questi casi è il contrasto tra la forza soverchiante di cui le masse hanno dato prova e il fatto che molto poco di sostanziale sia cambiato.

Questo è il risultato di un fattore mancante, su cui insisteremo ad oltranza: l’assenza di una direzione rivoluzionaria. Senza direzione, sul programma e sugli obiettivi finali della rivoluzione regnava la confusione. Queste rivoluzioni si sono fermate tutte a metà strada.

Ma a coloro che dicono che non si trattava affatto di rivoluzioni, diciamo: in queste circostanze nessun altro tipo di rivoluzione era possibile. Lenin confuta questa obiezione in maniera definitiva nella propria risposta a coloro che negavano che la Rivolta di Pasqua del 1916 in Irlanda avesse un qualsiasi significato rivoluzionario, che fosse un semplice “putsch”:

Poiché credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa, senza le esplosioni rivoluzionarie di una parte della piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse proletarie e semiproletarie arretrate contro il giogo dei grandi proprietari fondiari, della Chiesa, contro il giogo monarchico, nazionale, ecc., significa rinnegare la rivoluzione sociale. Ecco: da un lato si schiera un esercito e dice: ‘Siamo per il socialismo’, da un altro lato si schiera un altro esercito e dice: ‘Siamo per l’imperialismo’, e questa sarà la rivoluzione sociale! Soltanto da un punto di vista così pedantesco e ridicolo sarebbe possibile affermare che l’insurrezione irlandese è un ‘putsch’.
Colui che attende una rivoluzione sociale ‘pura’, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione.” (Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione)

Il problema della direzione

Manca una direzione politica chiara. Ma il punto è che le condizioni delle masse sono troppo disperate perché possano aspettare che questo fattore mancante appaia sulla scena. La gioventù è la meno propensa ad attendere pazientemente che le condizioni siano del tutto ottimali.

Un’altra caratteristica che risalta in tutte queste sollevazioni rivoluzionarie è il modo in cui un’intera generazione di giovani ha fatto irruzione sulla scena. La gioventù, derubata del futuro, non avendo nulla da perdere e tutto da guadagnare, essendo il settore più energico e privo del peso delle sconfitte passate, è stata ovunque in prima linea.

In Nepal e in Kenya, la stanno definendo la “Rivoluzione della Generazione Z”. In Serbia e in Bangladesh, grandi movimenti di studenti hanno incanalato come un parafulmine la rabbia di milioni di lavoratori comuni e di poveri.

Sebbene ci siano differenze tra un paese e l’altro, in generale è stata la gioventù ad esprimere quel poco di direzione che si è vista. Hanno portato confusione? Certo che sì. Di chi è la colpa? Rispondiamo con forza: la colpa è dei dirigenti delle organizzazioni operaie il cui compito è di guidare il movimento operaio.

Il fatto deplorevole è che la loro vile assenza era vergognosamente in contrasto con l’audacia dell’avanguardia giovanile.

Come i generali in Kenya e in Bangladesh hanno tenuto i soldati confinati nelle caserme per impedire che venissero contagiati dalla rivoluzione, così i battaglioni pesanti della classe operaia sono stati “confinati nelle caserme” dai leader operai.

Questo è criminale. In ultima istanza, solo la classe operaia ha il potere di distruggere dalle sue fondamenta il capitalismo, che è la vera origine di tutta la miseria e la sofferenza delle masse.

I giovani hanno cercato in molti casi di connettersi ai lavoratori. Gli studenti in Serbia hanno avuto il merito di fare correttamente appello ai sindacati a organizzare uno sciopero generale contro il regime di Vučić e hanno fatto appello alla formazione di zborovi (assemblee di massa) nei luoghi di lavoro. Ma i miopi burocrati dalle sedi dei sindacati hanno ignorato questi appelli, che consideravano come uno sconfinamento nei loro piccoli feudi.

In Kenya, il patetico segretario generale del sindacato COTU-K si è persino espresso in difesa della legge finanziaria regressiva del 2024 di Ruto che ha fatto scoppiare l’intero movimento.

E nel punto più alto dall’aragalaya (“lotta”) in Sri Lanka nel 2022, l’idea di un hartal (uno sciopero generale rivoluzionario) circolava ampiamente. Ma i sindacati si sono rifiutati di convocare qualsiasi cosa che fosse più di una giornata di sciopero.

Contro la corruzione

In tutti questi movimenti, abbiamo visto come le masse abbiano preso di mira i simboli più manifesti e evidenti, causa della loro rabbia.

Le cricche corrotte che dominano il paese, odiate tanto per la loro brutalità quanto per la loro corruzione, hanno attirato su di loro tutta la furia delle masse: la cricca dei Rajapaksa in Sri Lanka; la cricca di Hasina in Bangladesh; la cricca di Ruto in Kenya; i governanti e i loro “figli di papà” in Nepal; i politici che si regalano un favoloso aumento di stipendio in Indonesia; Vučić e i suoi sgherri in Serbia.

Prima di tutto, le masse in Sri Lanka, Kenya, Bangladesh, Nepal, Indonesia e altrove stanno lottando contro la corruzione.

Molti scettici notano questo e affermano con scherno che ciò conferma il loro argomento che non si tratta di rivoluzioni. Una vera rivoluzione, dicono, dovrebbe essere contro il capitalismo, non contro la corruzione.

Ma la corruzione è solo il sintomo più dirompente ed estremo di tutto il marciume dello stesso sistema capitalista. Le masse provano un profondo senso di ingiustizia, odio e indignazione quando pensano al livello sconcertante di ricchezza che li circonda. Ma percepiscono che la ricchezza viene drenata da una élite corrotta.

I commentatori occidentali descrivono la corruzione come una infelice caratteristica del cosiddetto “Terzo Mondo” e la indicano come causa del sottosviluppo. Ovviamente lo fanno per coprire le tracce dell’imperialismo, la principale causa di povertà e sottosviluppo.

Infatti, la stessa corruzione dilaga in tutti i paesi capitalisti, non ultimo in Europa. Prendiamo per esempio la somiglianza tra il crimine del crollo della tettoria nella stazione di Novi Sad in Serbia e il disastro ferroviario di Tempi in Grecia che hanno entrambi portato le masse nelle strade. In tutti e due i casi, la colpa era di politici corrotti. Contano il denaro che hanno accumulato con mazzette e contratti truffaldini, mentre i poveri contano i propri morti per i disastri causati dalla corruzione.

Nel frattempo, ad un povero conducente di risciò in Sri Lanka o in Bangladesh basta paragonare i suoi crampi allo stomaco per la fame con i progetti opulenti e frivoli come la Lotus Tower a Colombo o il ponte di Padma che attraversa il Gange, per sentire il divario enorme che lo separa dai propri governanti. Mentre Giacarta è un inferno in terra per i poveri, il governo indonesiano è impegnato a costruire una nuova capitale scintillante lontana molti chilometri dalla povertà e dal sudiciume dell’attuale capitale.

Quando le masse sono scese in strada contro i regimi in Sri Lanka, Indonesia, Bangladesh e Nepal, è contro questi ipocriti debosciati che si sono ribellati. Hanno istintivamente attaccato queste bande di corrotti partendo dalla testa e ci hanno regalato quelle scene di parlamenti presi d’assalto, di palazzi presidenziali saccheggiati e di sedi di partiti e di dimore di parlamentari date alle fiamme.

Le masse hanno mostrato la correttezza del proprio istinto colpendo questi banditi corrotti, che quando erano in carica si sono arricchiti all’ennesimo grado. Alla fine, però, se questa gente viene cacciata, ci sono altri pronti a prendere il loro posto. Il punto è che, per porre fine alla corruzione, dobbiamo porre fine al dominio del capitale. E ciò significa abolire la proprietà privata e schiacciare i corpi armati dello Stato capitalista, che costituiscono la vera fonte del potere delle classi dominanti.

Odio nei confronti di tutti i partiti

In quasi tutti questi movimenti c’è il sentimento che non sia solo l’attuale cricca al comando, ma che siano tutti i politici ad essere ugualmente malvagi. La cosiddetta “opposizione” ha dimostrato nella maggioranza dei casi di essere non meno corrotta.

E non è solo per la corruzione che vengono odiati. Il fatto stesso che partecipino allo stesso teatrino parlamentare tanto odiato, che parlino lo stesso linguaggio infarcito di menzogne, fa ricadere sull’opposizione il medesimo stigma che colpisce i governi.

Così, in Sri Lanka, al fianco dello slogan “Gota vai a casa”, che prendeva di mira il presidente corrotto Gotayaba Rajapaksa, le masse hanno lanciato lo slogan, “Andate a casa tutti e 225”, cioè tutti i 225 membri del parlamento.

In Kenya, i giovani si riferiscono ai parlamentari come “porci” [con il gioco di parole inglese: MPs, cioè parlamentare, storpiato in MPigs, Ndt]. Ben detto! Mentre fanno leggi che rendono i poveri sempre più poveri, questi “porci” – tutti loro – pascolano beatamente nella mangiatoria dei rimborsi e dei privilegi parlamentari. La gioventù keniota non vuole avere nulla a che fare con Ruto, ma non vuole avere nulla a che fare neanche con i capi dell’opposizione come Odinga, che si è affrettato a nascondersi dietro Ruto, per paura della gioventù rivoluzionaria.

Il loro slogan, “senza tribù, senza leader, senza partito”, ha colto un rifiuto istintivo e del tutto sano di tutte quelle bande di capitalisti tribali che in Kenya vengono chiamate “partiti politici”.

Ma se tutti i partiti esistenti sono strumenti di questa o di quella fazione corrotta della classe dominante, ciò significa che i lavoratori e i giovani possono fare a meno di un partito e il discorso è chiuso? Non è così. La situazione reclama un partito e una direzione propri che rappresenti gli interessi dei giovani e dei lavoratori.

La sinistra è come gli altri

Questo rifiuto di tutti i partiti politici riflette anche il fatto che, nella maggioranza dei casi, i cosiddetti partiti di “sinistra” non sono meglio dei partiti di destra!

In alcuni casi, la “sinistra” è diventata altrettanto corrotta dei partiti di destra. Abbastanza spesso, questi arrampicatori sociali arrivisti finiscono per essere persino peggio, infangando in maniera intollerabile lo stesso nome della “sinistra”.

Ciò non è semplicemente il prodotto di una qualche mancanza o fallimento morale da parte della sinistra. Questo marciume ha le proprie radici in principi teorici falsi. Una particolare responsabilità per questo triste stato di cose deve essere attribuita allo stalinismo, con la sua insidiosa teoria delle “due fasi”. Questo ha portato molti partiti di sinistra ad allinearsi direttamente con i peggiori e più corrotti elementi della classe dominante.

Secondo questa teoria, i compiti più urgenti nei paesi sottosviluppati non sono i compiti socialisti, bensì quelli democratico-borghesi. C’è un elemento di verità in questo.

Il desiderio più chiaro e pressante delle masse in paesi capitalisti arretrati come il Nepal, il Bangladesh, lo Sri Lanka e l’Indonesia è di rompere con il potere arbitrario e corrotto degli attuali regimi. Prima di ogni altra cosa, le masse che vivono sotto questi regimi brutali vogliono respirare liberamente. Vogliono diritti democratici.

Non c’è nulla di intrinsecamente socialista in queste rivendicazioni in quanto tali. Si tratta di quelle che i marxisti chiamerebbero rivendicazioni “democratico-borghesi”.

Ma dalla premessa che la rivoluzione deve fare i conti con compiti democratico-borghesi, la teoria delle “due fasi” dello stalinismo conclude che dobbiamo andare alla ricerca di un settore “progressista” della borghesia per guidare la rivoluzione. Solo dopo anni di sviluppo capitalistico, che la fase della rivoluzione guidata dalla borghesia nazionale dovrebbe inaugurare, il paese diventerà infine maturo per il socialismo.

C’è solo un piccolo problema. Oggi non esiste un siffatto settore “progressista” della classe capitalista in nessun paese arretrato. È una classe totalmente parassitaria e completamente dipendente dall’imperialismo. È terrorizzata dalle masse rivoluzionarie e, nello specifico, dall’unica classe strutturalmente rivoluzionaria nella società, cioè la classe operaia. Tutte le loro politiche, azioni e dichiarazioni lo dimostrano.

Nella ricerca della chimera di un settore “progressista” della classe capitalista, gli stalinisti sono finiti per appigliarsi alla sottana di questa o di quella cricca corrotta.

Il Partito Comunista del Bangladesh ha appoggiato per decenni la Lega Awami di Hasina e di suo padre Mujib. Hanno dipinto la Lega Awami come i difensori “progressisti” della liberazione nazionale bengalese e hanno giustificato la prosecuzione del proprio appoggio nei loro confronti sulla base del fatto che la Lega Awami “laica” fosse il male minore rispetto ai fondamentalisti religiosi di Jamaat-e-Islami.

Adesso, si sono screditati con Hasina, mentre i reazionari di Jamaat-e-Islami possono presentarsi come martiri del regime della Lega Awami di Hasina.

In assenza di un partito rivoluzionario che possa legare la questione della corruzione con il capitalismo, i fondamentalisti islamici si sono fatti avanti e hanno cominciato essi stessi a parlare di “combattere la corruzione”. “Sì, anche noi siamo contro i politici corrotti”, dicono. “Abbiamo bisogno di una politica più pulita, di nuovi volti al posto dei vecchi”. Questi reazionari spostano la responsabilità della corruzione dal capitalismo verso altre presunte cause, come l’assenza di morale e devozione dei laici.

Forse, la condanna più definitiva della teoria stalinista delle “due fasi” la si ritrova in Nepal, dove i maoisti dominano la scena politica nazionale.

Dopo una guerriglia di un decennio, nel 2006 i maoisti sono stati spinti al potere sulla scia di un’ondata rivoluzionaria. Cosa hanno fatto? Hanno firmato immediatamente un accordo di 12 punti con partiti apertamente borghesi come il Partito del Congresso nepalese, e il paese è stato governato da allora da una coalizione di sedicenti “comunisti” insieme con questi elementi borghesi.

La giustificazione di questo era che tutte le forze “progressiste” e “anti-feudali” dovevano unirsi per abolire la monarchia e costruire una repubblica. Ciò avrebbe portato ad uno sviluppo del capitalismo nepalese che, ad un certo punto, avrebbe posto le basi per una rivoluzione socialista in Nepal.

Ma tra il 2008 e il 2025, non si è registrato alcun progresso. Il Nepal è passato dall’essere il 140esimo ad essere il 145esimo paese, su 193, nell’Indice dello Sviluppo Umano. Ogni anno, migliaia di giovani fuggono la povertà nel paese andando a lavorare all’estero, al punto che un terzo del PIL del paese è costituito dalle rimesse degli emigrati.

Dopo aver amministrato lo Stato per conto dei capitalisti per quasi vent’anni, gli stessi politici maoisti sono diventati bersaglio dell’odio delle masse. Sono altrettanto invischiati nella corruzione dei partiti apertamente borghesi.

Chi troviamo tra i “figli di papà”, la cui ricchezza ostentata ha scatenato gli ultimi avvenimenti? Giovani come Smita Dahal, che sfoggia borsette che valgono molti mesi del salario di un lavoratore nepalese, e il cui nonno è nientemeno che il presidente Prachanda, ex comandante della guerriglia maoista.

Rivoluzioni colorate?

C’è un’opinione diffusa tra i difensori delle virtù del nuovo mondo “multipolare” secondo la quale quanto stiamo osservando è l’esatto opposto di una rivoluzione. Dicono che queste sono contro-rivoluzioni o rivoluzioni “colorate”, cioè torbidi complotti dei servizi segreti occidentali per manipolare le masse.

Lo stesso si è spesso detto della Primavera Araba, che mostra molte somiglianze con l’attuale ondata rivoluzionaria. Possiamo capire perché alcune persone pensino a torto che dietro ci siano i fili di un complotto. La classe operaia in Egitto non è stata in grado i prendere il potere. Il risultato? Al-Sisi ha sostituito Mubarak e la situazione in Egitto è oggi cento volte più difficile di quanto non fosse nel 2010. In Libia e in Siria, l’imperialismo è riuscito a far sprofondare questi paese in guerre civili barbariche.

Il fatto che l’epicentro dell’attuale ondata di rivoluzioni sia in Asia Meridionale e che alcuni dei regimi coinvolti guardino alla Cina, dà credito all’idea che si tratti un cambio di regime orchestrato dall’Occidente.

C’è un’amara ironia nell’idea che quella che stiamo vedendo adesso è un’ondata di rivoluzioni colorate.

I sostenitori del “multipolarismo” dicono che la sinistra deve lottare contro l’imperialismo appoggiando i regimi borghesi “progressisti” e “anti-imperialisti” nel “Sud Globale”. Ma sono ciechi di fronte al fatto che il motivo per cui la sinistra è così screditata, lasciando un vuoto che i reazionari provano a sfruttare, è precisamente che la sinistra ha difeso per anni questa stessa chimera di una borghesia nazionale “progressista” e “anti-imperialista”.

L’idea che siamo di fronte a casi di “rivoluzioni colorate” è falsa. I complotti non spiegano quello che stiamo vedendo. Tuttavia, è un’idea falsa che contiene un elemento di verità. In assenza di una direzione rivoluzionaria, la contro-rivoluzione può vincere, gli imperialisti possono trovare dei varchi per intervenire e la situazione può degenerare in una direzione molto reazionaria.

Dobbiamo dire con franchezza che il bilancio di queste rivoluzioni lo dimostra e che questa è una lezione che dobbiamo trarne.

In Siria, l’incapacità della rivoluzione di formulare un programma proletario ha permesso agli imperialisti di impadronirsi del movimento e di trasformarlo in una rivolta fondamentalista islamica. Ugualmente, la rivolta della gioventù iraniana del 2018, incapace di sviluppare una chiara visione di classe, è caduta nell’orbita dell’opposizione liberale appoggiata dall’Occidente.

E nei casi più recenti che abbiamo discusso? In Kenya, Ruto rimane al potere. È un duro fatto che la gioventù non è riuscita ha rovesciarlo con delle semplici mobilitazioni. In Bangladesh e in Sri Lanka, il vecchio regime è stato rovesciato. Tuttavia, in tutti e tre i paesi, i governi stanno portando avanti l’austerità e attaccando la classe lavoratrice e i poveri per conto del Fondo Monetario Internazionale. Tutti sono costretti a condurre questa politica perché è l’unica politica possibile sotto il capitalismo.

Mentre si celebrava con entusiasmo la “ripresa economica” in Sri Lanka, fino allo scorso anno il tasso di povertà rimaneva il doppio di quello di inizio 2022. La gioventù sta cercando di emigrare, se può, o altrimenti si trova intrappolata in giornate di lavoro infinite per sopravvivere. In Bangladesh, si sono persi 2,1 milioni di posti di lavoro a partire dal movimento del luglio 2024.

Le condizioni continuano a peggiorare. In Bangladesh, i leader studenteschi hanno perso gran parte della propria autorevolezza. La ciliegina sulla torta è stato quanto è accaduto con il sistema delle quote che ha innescato la rivoluzione in Bangladesh. Gli studenti si sono mobilitati lo scorso anno per porre fine a questa discriminazione: nello specifico, per porre fine alle quote per i posti di lavoro ben retribuiti nel settore pubblico riservati ai membri delle famiglie dei veterani della Guerra di Indipendenza del 1971. Era un sistema che, di fatto, forniva posti di lavoro ai lacchè del regime di Hasina e della Lega Awami.

Questo sistema di quote è stato così eliminato… e sostituito con un sistema di quote che riserva i posti di lavoro ai membri delle famiglie dei veterani dell’insurrezione di luglio 2024!

Sotto il capitalismo, è possibile soltanto una diversa ripartizione del bottino, ma non può mai esserci la fine del saccheggio.

Processi incompiuti

Le rivoluzioni non sono un atto unico e questa non è la fine della storia. In Sri Lanka, Nepal e Bangladesh, l’odiato vecchio regime è stato rovesciato. Le masse hanno ottenuto vittorie iniziali che si sono dimostrate strabilianti. Ma guardando più da vicino, ne viene fuori che la vittoria era più apparente che sostanziale. Chi era alla testa del regime se n’è andato, ma il vecchio Stato, la vecchia classe dominante, è ancora al potere.

C’è un’analogia tra quello che abbiamo visto qui e quanto avvenne in Russia nel febbraio 1917.

I lavoratori russi fecero irruzione sulla scena con uno sciopero generale insurrezionale. In pochi giorni, lo zar fu costretto ad abdicare. Un governo provvisorio venne insediato. Ma quando l’entusiasmo si raffreddò, divenne chiaro che i vecchi generali e burocrati monarchici erano rimasti al proprio posto. I capitalisti erano ancora proprietari delle fabbriche, i latifondisti possedevano ancora tutta la terra. Era lo zarismo, ma senza lo zar.

La vittoria non sarebbe stata completa finché il vecchio Stato non fosse stato distrutto e i lavoratori stessi avessero preso il potere. Questo accadde con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917. E fu possibile solo grazie alla presenza del partito bolscevico che pose con chiarezza gli obiettivi della rivoluzione e conquistò alla propria bandiera la classe operaia e il resto delle masse oppresse della Russia.

In sua assenza, la vecchia classe dominante avrebbe potuto benissimo trascinare la Russia nella barbarie. Si sarebbe profilata la guerra civile, accompagnata dai pogrom. Con ogni probabilità, la Russia sarebbe stata smembrata tra le potenze imperialiste e molte milioni di persone sarebbero morte.

In altre parole, la Russia avrebbe subito un destino simile a quello che sta vivendo oggi il Sudan. In questo paese, le masse rivoluzionarie avevano l’occasione perfetta per prendere il potere nel 2019. La direzione del movimento se l’è fatta sfuggire e ora il paese è ridotto in mille pezzi da una guerra civile barbarica tra due bande armate reazionarie e le varie potenze imperialistiche che le appoggiano.

Certo, un esito reazionario così devastante come quello che stiamo vedendo in Sudan non è per nulla inevitabile. A determinare l’esito concorrono la forza della classe operaia e tutta una serie di altri fattori. Ma si tratta tuttavia di un avvertimento spietato.

Chi sarà il prossimo?

Gli eventi rivoluzionari cui abbiamo assistito continueranno probabilmente a svilupparsi per molti anni in Sri Lanka, Bangladesh, Nepal, Indonesia, Kenya e altrove. Ci saranno flussi e riflussi e indubbiamente anche nuove sollevazioni insurrezionali.

Se la storia del bolscevismo dal 1903 al 1917 ci insegna qualcosa, è che, se vuole giocare un ruolo decisivo, il partito deve essere costruito prima della rivoluzione. Non ci azzardiamo a dire che un partito rivoluzionario non possa essere costruito in condizioni rivoluzionarie, ma farlo non è per niente semplice.

Dunque, dirigiamo ora le nostre parole ai lavoratori e ai giovani rivoluzionari più avanzati in tutto il resto del mondo che ancora non è stato travolto dalla rivoluzione. Il compito di costruire il partito rivoluzionario deve essere intrapreso con urgenza, adesso! Tutti gli esempi che abbiamo enumerato puntano in questa direzione.

È necessario tempo per costruire i quadri di un futuro partito rivoluzionario di massa. Il tempo non è una cosa che abbiamo in abbondanza. Le condizioni che hanno dato vita alle rivoluzioni in tutti i paesi summenzionati stanno rapidamente maturando ovunque.

È impressionante quanto fossero simili le condizioni che hanno prodotto queste rivoluzioni.

Apparentemente, questi non erano neanche i paesi maggiormente in crisi al mondo. Tutt’altro. Stavano sperimentando un boom economico con tassi di crescita che farebbero morire di invidia gli economisti dei paesi capitalisti più avanzati.

Tra il 2010 e il 2024, escluso l’anno della pandemia del 2020, il Nepal ha sperimentato una crescita economica annuale in media del 4,7%, il Kenya del 5,2% e l’Indonesia del 5,23%. Lo Sri Lanka è entrato in crisi prima, ma tra il 2010 e il 2018, anch’esso ha visto una crescita media del 6,43% su base annuale.

Ma bastava grattare la superficie e cosa si è trovato? Una crescita estremamente diseguale, disoccupazione, povertà persistente, e una montagna impagabile di debiti usurai da versare agli imperialisti. La cosa più minacciosa per la classe dominante è che gli alti tassi di disoccupazione giovanile e l’assenza di un futuro dignitoso siano diventati una tematica diffusa.

In Sri Lanka la disoccupazione giovanile era al 25% nel 2021, 4/5 volte maggiore della media. In Indonesia, 7 milioni di giovani su 44 milioni sono disoccupati. In Bangladesh, meno di uno su cinque tra i 25 e i 29 anni ha un lavoro stabile, con un contratto che dura più di un anno. Prima della pandemia, il 39% dei laureati in Bangladesh erano disoccupati.

“Non abbiamo lavoro né futuro”, come ha detto un giovane keniota, “quindi abbiamo tutto il tempo del mondo per rovesciarvi e nulla da perdere nel lottare contro di voi”.

Sono queste caratteristiche esclusive di questi paesi? No. Sono straordinariamente simili alle condizioni di molti altri paesi.

Nel 2023, erano in bancarotta o sull’orlo della bancarotta 21 paesi, pari a una popolazione di 700 milioni di persone. In tutto il mondo, tre miliardi di persone vivono in paesi che spendono di più per pagare gli interessi sul debito che per la sanità o l’istruzione.

Anche durante i tempi di “vacche grasse”, le masse erano già con l’acqua alla gola. Questo è specialmente vero per i paesi poveri o i cosiddetti paesi “a reddito medio”, che non avevano le riserve necessarie per superare le devastazioni della crisi che è scoppiata con la pandemia Covid-19.

Quando la rivoluzione è esplosa in Sri Lanka nel 2022, prevedevamo che simili avvenimenti avrebbero attraversato un paese dopo l’altro, poiché hanno tutti le stesse caratteristiche. Così è successo e prevediamo fiduciosi che la lunga lista di questi paesi non è ancora terminata. Le classi dominanti di India e Pakistan – con i loro numerosi “figli di papà” – staranno tremando di paura, mentre guardano svolgersi queste scene.

Questa ondata rivoluzionaria ha avuto inizio nei paesi più poveri e meno sviluppati, ma non rimarrà confinata ad essi. Come spiegava Trotskij, “La gotta comincia da un dito o da un alluce, ma quando si diffonde, progredisce fino a raggiungere il cuore”.

Le fiamme della rivoluzione stanno già lambendo i confini dell’Europa in Serbia, e il movimento Bloquons tout [blocchiamo tutto, Ndt] in Francia mostra che la rivoluzione si farà certamente strada fino al cuore. Il mondo è in fiamme e le esplosioni rivoluzionarie sono all’ordine del giorno. Dobbiamo comprendere questo fatto e tutto ciò che ne deriva nei termini della responsabilità di costruire le nostre forze con urgenza che questo impone a noi rivoluzionari.

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