Netanyahu il piromane e Biden l’ipocrita

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Netanyahu il piromane e Biden l’ipocrita

di Franco Bavila

Dopo quasi un anno, la carneficina a Gaza non si ferma. Nonostante tutte le devastazioni e le atrocità commesse, l’esercito israeliano non ha ancora raggiunto i suoi obiettivi. Hamas, per quanto sia stato colpito duramente, non è affatto stato annientato: gode dell’appoggio della popolazione palestinese e ha nelle sue mani ancora un centinaio di ostaggi israeliani.

Il Medio Oriente in fiamme

Di fronte a questo scacco, Netanyahu ha rilanciato, portando avanti una serie di attacchi e provocazioni in tutta la regione, con l’obiettivo evidente di estendere il conflitto all’intero Medio Oriente e indurre gli USA a un intervento militare diretto contro l’Iran.

Il 30 luglio le forze armate israeliane hanno bombardato Beirut, uccidendo Fouad Chokr (uno dei comandanti di Hezbollah). Il giorno dopo, a Teheran, hanno ammazzato con una bomba il leader di Hamas Isamil Haniyeh. Il 25 agosto Israele ha condotto una massiccia incursione aerea in Libano, colpendo più di 40 postazioni di Hezbollah. Il 28 agosto l’IDF ha condotto una vera e propria invasione della Cisgiordania, attaccando simultaneamente Jenin, Nablus, Tubas e Tulkarem: i bulldozer hanno demolito strade, acquedotti e reti fognarie. L’8 settembre è stata la Siria a essere colpita da un raid israeliano, che ha provocato 18 morti e più di 30 feriti.

Anche davanti a questa lunga ondata di brutali e plateali aggressioni, i governi e i mass media occidentali hanno continuato a presentare Israele come la vittima che deve difendersi dagli attacchi dell’asse del male iraniano. In realtà, se ancora non è scoppiata una guerra totale è soprattutto perché l’Iran si sta “trattenendo”, non avendo alcun interesse ad essere trascinato in un confronto militare diretto con gli USA. Tuttavia la prudenza del regime di Teheran di fronte alle provocazioni israeliane non può essere infinita ed è evidente che già oggi, in questa strana “guerra limitata” in corso, i limiti delle operazioni militari si allargano ogni giorno di più.

Le manovre dell’imperialismo

L’amministrazione Biden non vuole una guerra aperta con l’Iran. Un conflitto di queste dimensioni destabilizzerebbe tutti i regimi arabi alleati degli USA (Egitto, Giordania, monarchie del Golfo…) e farebbe ulteriormente crollare i consensi elettorali dei democratici in vista delle prossime elezioni di novembre. Per questo Biden sta esercitando pressioni perché i negoziati del Cairo, condotti con la mediazione di Egitto e Qatar, portino a un qualche tipo di accordo tra Hamas e Israele.

Già ai primi di luglio Hamas aveva approvato una bozza di accordo presentata da Biden, che prevedeva un cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi e uno scambio di prigionieri, ma Netanyahu ha sabotato consapevolmente i negoziati, ponendo sempre nuove condizioni. Ora pretende che l’IDF mantenga il controllo del cosiddetto “corridoio di Filadelfia”, lungo il confine tra Gaza e l’Egitto: in questo modo Gaza continuerebbe ad essere occupata e accerchiata, una condizione inaccettabile per Hamas.

Per quanto le azioni di Netanyahu possano entrare in contrasto con i piani di Washington, l’imperialismo americano non può arrivare a una rottura con Israele. Ne ha bisogno per contrastare la crescente influenza in Medio Oriente della Russia e della Cina. Israele infatti non è solo un alleato chiave, ma rappresenta anche il perno attorno al quale si appoggia tutto l’imponente schieramento militare dell’imperialismo americano nella regione.

È per questo motivo che Biden con una mano promuove i colloqui diplomatici del Cairo e con l’altra continua a inviare armi in Israele. A metà agosto il Dipartimento di Stato ha approvato la vendita al governo israeliano di armamenti per oltre 20 miliardi di dollari. Kamala Harris non è diversa da Biden su questo: da una parte sostiene il diritto di Israele a “difendersi” dall’Iran, dall’altra esprime grande preoccupazione per le vittime civili a Gaza. In questo modo Israele ottiene missili e bombe, mentre i palestinesi ottengono… la preoccupazione della Harris.

Le spaccature in Israele

Netanyahu è convinto che una guerra regionale su tutti i fronti (Libano, Iran, Cisgiordania…) gli permetterebbe di rimanere al potere a tempo indefinito. Invece la sua politica gli sta alienando una parte molto ampia della popolazione di Israele, della sua classe dominante e persino del suo stesso governo.

Il ritrovamento di 6 ostaggi uccisi ha provocato un’ondata di proteste in tutto il paese contro il governo. I famigliari degli ostaggi ritengono Netanyahu responsabile di queste morti, per la sua azione di costante sabotaggio dei negoziati con Hamas. 300mila persone sono scese in piazza a Tel Aviv l’1 settembre e il giorno dopo c’è stato uno sciopero generale.

Siamo però in presenza di una mobilitazione molto peculiare. Le manifestazioni rivendicano un accordo per la liberazione degli ostaggi e le dimissioni di Netanyahu, ma non dicono una parola sul massacro dei palestinesi o contro la guerra. Lo sciopero è stato convocato dal principale sindacato, l’Histadrut, ma vi hanno aderito anche alcune delle principali associazioni padronali. Il motivo è che la protesta è legata a un settore della classe dominante sionista, che vorrebbe adottare una strategia di guerra più razionale rispetto a quella di Netanyahu e più in linea con la politica di Washington. In questo settore rientra anche il ministro della difesa Gallant, il quale auspica un accordo con Hamas per consentire all’IDF di ridurre il suo impegno a Gaza, riorganizzare le sue forze e concentrare lo sforzo militare contro Hezbollah e l’Iran.
Gallant e gli altri temono soprattutto che la coesione della società israeliana possa andare in pezzi. È dal 1948 che la classe dominante sionista è al potere sulla base della promessa di garantire la sicurezza della popolazione ebraica contro le minacce esterne. Oggi il cinismo e i giochi d’azzardo di Netanyahu stanno riducendo in briciole questa illusione.

Proprio per questo è fondamentale che la classe lavoratrice israeliana non resti accodata a questo o quel settore della borghesia sionista. I lavoratori ebrei devono unirsi a quelli arabo-israeliani in una lotta indipendente, che rigetti in toto le politiche sioniste e ponga al primo posto il ritiro dell’IDF e dei coloni dai territori palestinesi. È questo l’unico sviluppo in Israele che potrebbe davvero spezzare l’escalation della guerra e trasformare radicalmente lo scenario in tutto il Medio Oriente.

 

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