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Bangladesh – La guerra di liberazione del 1971 e la rivoluzione incompiuta

di Will Collins

Oggi, la rivoluzione ha raggiunto un punto critico in Bangladesh. Le masse sono entrate nuovamente nell’arena della lotta. Stanno riscoprendo una ricca tradizione rivoluzionaria che risale a decenni fa. In realtà, i compiti di questa rivoluzione sono i compiti rimasti in sospeso da una rivoluzione incompiuta, iniziata più di cinquant’anni fa e culminata nel 1971 con la guerra d’indipendenza contro il dominio del Pakistan. Imparare le lezioni di quel periodo è fondamentale non solo per comprendere il presente, ma anche per garantire che la lotta rivoluzionaria attuale venga portata avanti fino alla vittoria.

La rivoluzione e la successiva guerra d’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan furono eventi sconvolgenti. Tuttavia, pochissimi sanno cosa accadde realmente.

I principali partiti politici in Bangladesh oggi avvolgono la memoria della guerra in una nebbia fatta di bugie. Si ricoprono di gloria, gonfiando i ruoli avuti dai loro partiti nella lotta per l’indipendenza.

Ma i veri eroi di quella storia erano i milioni di bengalesi senza nome che lottarono e furono disposti a pagare il sacrificio estremo per la causa della libertà. Ed è ora che si faccia luce su quegli eventi.

La partizione

Il 14 e il 15 agosto 1947 fu commesso un grande crimine contro l’umanità. Circa 2 milioni di persone furono uccise, 75.000 donne violentate e ci furono 10-20 milioni di sfollati in una frenesia di violenza settaria scatenata dalla partizione dell’India. Ted Grant spiegò le ragioni di quel crimine in questo modo:

La divisione del subcontinente in Pakistan e India fu un crimine compiuto dall’imperialismo britannico. Inizialmente, l’imperialismo britannico cercò di mantenere il controllo dell’intero subcontinente, ma, durante il 1946-1947, scoppiò una situazione rivoluzionaria in tutto il subcontinente indiano. L’imperialismo britannico si rese conto che non poteva più contenere la situazione. Le sue truppe erano principalmente indiane e non ci si poteva affidare a loro per fare il lavoro sporco per gli imperialisti.

Fu in queste condizioni che gli imperialisti concepirono l’idea della divisione. Poiché non riuscivano più a tenere sotto controllo la situazione, decisero che era preferibile aizzare i musulmani contro gli indù e viceversa. Con questo metodo, progettarono di dividere il subcontinente per renderlo più facile da controllare dall’esterno una volta che fossero stati costretti a fare a meno di una presenza militare. Lo fecero senza alcuna preoccupazione per il terribile spargimento di sangue che si sarebbe scatenato.” (Ted Grant, 2001)

Questo evento era completamente evitabile. Solo un anno prima, indù, sikh e musulmani erano rimasti fianco a fianco sulle barricate nella rivoluzione contro l’occupazione britannica dell’India.

La Gran Bretagna non poteva più mantenere il dominio diretto, dovette quindi ricorrere al divide et impera. In collaborazione con le élite dominanti indù e musulmane, il subcontinente fu diviso in base a linee settarie religiose.

L’India avrebbe ospitato la maggioranza degli indù, mentre la nuova nazione del Pakistan avrebbe ospitato la maggioranza dei musulmani.

La regione del Bengala venne divisa in Est e Ovest. L’Ovest, essendo a maggioranza indù, fu incorporato nell’India, mentre l’Est, essendo a maggioranza musulmana, divenne il Pakistan orientale (l’odierno Bangladesh).

Il Pakistan orientale

Sebbene le popolazioni del Pakistan occidentale e di quello orientale condividessero la stessa religione, avevano sviluppato culture e tradizioni uniche e parlavano lingue completamente diverse, per non parlare del fatto che erano separate da 1.900 chilometri di territorio ostile!

Fin dal primo giorno, il Pakistan orientale è stato sotto il completo dominio economico, politico e culturale del Pakistan occidentale.

Nel 1970, ventidue famiglie capitaliste del Pakistan occidentale possedevano circa il 66% dell’industria e l’80% delle banche nel Pakistan orientale. Karachi divenne capitale nonostante la maggior parte della popolazione risiedesse nell’est.

Inoltre, lo stipendio medio per i lavoratori nel Pakistan occidentale era di 35 sterline al mese rispetto alle 15 sterline al mese nell’est. Il Pakistan orientale era un mercato dominato da beni realizzati nel Pakistan occidentale poiché la ricchezza fluiva dall’est verso l’ovest.

Il 90% dell’esercito proveniva dal Pakistan occidentale e solo il 16% dell’élite dell’amministrazione statale era composto da pakistani orientali. L’urdu era dichiarata lingua nazionale, nonostante solo il 7% della popolazione lo parlasse, rispetto al 55% che parlava una forma di bengalese.

La classe dominante del Pakistan occidentale soppresse le libertà democratiche dei bengalesi per difendere i propri privilegi e garantire la massima estrazione di profitti.

Pur essendo formalmente libero dai suoi padroni coloniali britannici, il Pakistan orientale era ora una semicolonia del Pakistan occidentale che ospitava una massa di bengalesi oppressi.

Lenin una volta osservò che la questione nazionale è in ultima analisi una questione di pane. La questione della libertà economica era al centro della lotta per l’indipendenza.

Lo Stato pakistano aveva la dinamite nelle sue fondamenta.

Il movimento linguistico

Le prime avvisaglie di malcontento emersero nel 1952 con un movimento di massa per il riconoscimento e l’utilizzo della lingua bengalese. Il movimento ottenne un sostegno di massa dopo che la polizia sparò e uccise decine di attivisti studenteschi.

Il movimento per il riconoscimento della lingua bengalese del 1952.

Durante questo movimento, un giovane Mujib-ur-Rahman, il padre della tiranna Sheikh Hasina, recentemente deposta, salì alla ribalta. Sarebbe poi diventato il leader del partito nazionalista bengalese, la Lega Awami, che in seguito ebbe un ruolo chiave nella lotta per l’indipendenza.

Mujib proveniva da un ambiente borghese e di proprietari terrieri ed era ispirato dalla democrazia “in stile occidentale”. Era dotato di grande carisma e di una buona istruzione: la figura di spicco ideale per la emergente piccola borghesia bengalese.

Le elezioni generali del 1954 videro la vittoria della coalizione nazionalista bengalese, il Fronte Unito (Fronte Jukta), che ottenne il 65,5% dei voti. Terrorizzata dal crescente malcontento nei confronti del nazionalismo del Pakistan occidentale, la sua élite sciolse il governo dopo soli 56 giorni e fu costretta a concedere il riconoscimento ufficiale della lingua bengalese nel 1956.

Fu nella tempesta e nello stress degli anni ’50 che venne forgiata la moderna coscienza nazionale del Bangladesh.

La dittatura

La “democrazia” Pakistana giunse al termine nel 1958. I tumulti politici, sociali ed economici portarono alla messa al bando dei partiti politici e a una situazione di stallo tra le classi in lotta.

Il generale Ayub Khan

Nel 1958, l’ufficiale dell’esercito Ayub Khan salì al potere tramite un colpo di Stato militare e governò da uomo forte, bilanciandosi tra le classi per “salvare il paese dall’anarchia”. Fu istituita la legge marziale e tutti i raduni politici vennero vietati. La cultura bengalese venne soppressa.

Ayub Khan invitò l’esercito americano a costruire basi militari, rendendo il Pakistan un avamposto dell’imperialismo statunitense nella regione.

Internamente, il Pakistan vide durante gli anni ’60 sotto la dittatura militare, una crescita economica senza precedenti. I sindacati erano praticamente illegali, rendendo il Pakistan un paradiso per gli investimenti stranieri.

L’industrializzazione aveva forgiato una potente classe operaia nelle città pakistane, e questa era sempre più infuriata contro il regime. Le masse soffrivano condizioni di lavoro orribili mentre la gang di capitalisti, proprietari terrieri ed élite militari super ricchi ostentava la propria ricchezza.

Nel 1965, il Pakistan intraprese una guerra costosa e disastrosa con l’India per il controllo del Kashmir, che aggravò l’inflazione e aumentò il costo della vita.

La censura della stampa e le severe restrizioni all’espressione politica intensificarono il sentimento di oppressione nazionale dei bengalesi nel Pakistan orientale.

Ciò gettò le basi per una potente esplosione della lotta di classe. Tutto ciò di cui c’era bisogno era una scintilla per accendere l’odio e la rabbia radicati nei confronti del regime.

I capitalisti del Pakistan occidentale realizzarono profitti enormi possedendo enormi distese di terra e sfruttando gruppi di minoranze etniche come manodopera a basso costo.

Pertanto, la borghesia pakistana, legata mani e piedi ai proprietari terrieri e agli imperialisti americani, si dimostrò incapace di formare uno Stato democratico moderno che potesse rispondere ai bisogni fondamentali del popolo: terra ai contadini e libertà per i gruppi etnici oppressi.

Nel 1966, Mujib-ur-Rahman presentò il “programma in sei punti” che richiedeva maggiore autonomia e il ripristino della democrazia parlamentare all’interno della federazione pakistana. Richiedeva il diritto di formare un esercito indipendente e di avere il controllo sulle proprie entrate fiscali, inclusa l’esistenza di due valute separate.

Un tale programma, per quanto moderate fossero le sue richieste, era un affronto per la classe dominante pakistana. Il Pakistan orientale era la principale fonte di profitti per la classe dominante (che si trovava principalmente nel Pakistan occidentale) e allo stesso tempo la sua popolazione rappresentava la maggioranza della popolazione complessiva pakistana. Concedere il suffragio universale avrebbe significato perdere il controllo della situazione (come alla fine accadde). Concedere al Pakistan orientale il potere di riscuotere le tasse e di avere una propria valuta avrebbe significato una perdita di controllo economico da parte della classe dominante del Pakistan occidentale.

Inoltre, attorno al programma in sei punti fu organizzato un movimento di massa che ebbe il sostegno della maggioranza delle masse del Pakistan orientale.

La Rivoluzione

Il preludio alla rivoluzione iniziò nel 1967 con uno sciopero combattivo dei ferrovieri nel Pakistan occidentale e l’elezione nello Stato indiano del Bengala occidentale (adiacente al Pakistan orientale) di un governo di “Fronte Unico”, che includeva partiti comunisti e socialisti e che portò migliaia di persone a scendere in piazza a Calcutta in suo appoggio.

Il quotidiano The Economist proclamò allarmato, “se c’è un posto in Asia pronto per un tentativo di rivoluzione urbana, è Calcutta, e le città del Pakistan orientale non sono molto indietro”.

Non avevano torto. Nella città di Rawalpindi, nel Pakistan occidentale, il 7 novembre 1968, la polizia aprì il fuoco sugli studenti che protestavano contro il trattamento aggressivo da parte dei funzionari doganali, uccidendo una persona. Rivolte e proteste scoppiarono in tutta la città e si diffusero a macchia d’olio in tutto il paese, compreso il Pakistan orientale.

Tutta la collera e la rabbia accumulate contro il regime erano esplose in superficie.

A questo punto, la leadership del movimento era principalmente nelle mani di Mujib-ur-Rahman della Lega Awami e di Maulana Abdul Hamid Khan Bhashani “Il Rosso”, presidente del Maoist National Awami Party (NAP), un’unione di organizzazioni contadine vicine alla Cina.

Bhashani era una persona colta proveniente da un ambiente contadino della classe media. Seguendo l’esempio di Mao e della Rivoluzione cinese, credeva che la lotta per l’indipendenza sarebbe stata vinta attraverso una guerriglia armata guidata dai contadini. La rivolta contadina a Naxalbari, nel Bengala Occidentale nel 1966 ebbe una forte influenza sui leader contadini politicamente consapevoli del Pakistan orientale. Riuscì a ottenere una base di massa tra i contadini e i giovani studenti.

A partire dalla fine di novembre 1968, Maulana Bhashani esortò i contadini poveri al gherao (letteralmente: circondare) delle residenze dei funzionari per lo sviluppo corrotti e degli uffici Tahsil (responsabili delle entrate fiscali e della proprietà terriera). Questo gherao iniziò in numerosi distretti a dicembre.

Il 6 dicembre, Bhashani indisse uno sciopero generale. Il governo rispose con la repressione e il divieto di tutte le assemblee e i cortei. Il movimento, questa volta sostenuto da Mujib e dall’ala studentesca della Awami League e dal Sarbadaliya Chhatra Sangram Parishad (Comitato d’azione studentesca di tutti i partiti), indisse un altro sciopero generale il 13 dicembre.

Questa agitazione coincise con le udienze per il caso della cospirazione di Agartala, in cui Mujib e altri 34 erano stati processati con l’accusa di aver cospirato con l’India per organizzare una rivoluzione violenta nel Pakistan orientale. Con l’avvicinarsi della data finale del processo, l’agitazione che chiedeva il rilascio di tutti gli imputati si intensificò.

Il comitato d’azione studentesco fu formato il 4 gennaio 1969 in seguito alla fusione di gruppi studenteschi di sinistra e nazionalisti. Divenne l’avanguardia della rivoluzione.

I sei punti di Mujib furono sostituiti da un “programma in 11 punti” più radicale , proposto dagli studenti. Questo programma chiedeva la completa autonomia per il Pakistan orientale, il rilascio dei prigionieri politici, il ripristino della democrazia parlamentare, una riduzione delle tasse sugli agricoltori e “la nazionalizzazione di banche, compagnie assicurative e tutte le grandi industrie, compresa quella della juta”. Attraverso la propria esperienza, il movimento stava traendo conclusioni più radicali, collegando le richieste democratiche a quelle sociali e acquisendo un carattere anticapitalista.

Il 20 gennaio le dimostrazioni di massa accelerarono dopo che il leader studentesco Amanullah Mohammad Asaduzzaman fu ucciso dalla polizia in una manifestazione pacifica. La sua morte è ancora oggi celebrata come un eroico sacrificio alla causa. Gli studenti convocarono per il giorno seguente un hartal (sciopero generale e blocco) di protesta, che fu ampiamente partecipato.

Per ogni manifestante assassinato, migliaia di altri si unirono al movimento, che divenne di giorno in giorno sempre più radicale:

La lotta della classe media per un governo democratico sotto la guida della borghesia si trasformò in un’ondata rivoluzionaria delle masse. La popolazione lavoratrice (i conducenti di risciò, gli autisti di autocarri e tutti gli altri lavoratori a giornata) della città si unì agli studenti e sfidò le forze dell’ordine. La rivolta popolare distrusse la stabilità di facciata del regime e l’amministrazione crollò” (Labour Movement in Bangladesh, Kamruddin Ahmad, 1978).

Il 17 febbraio 1969 ci fu un altro punto di svolta. Un professore, Mohammad Shamsuzzoha, della Rajshahi University nel Pakistan orientale fu ucciso a colpi di baionetta da un soldato durante una manifestazione. Una volta che la notizia giunse nella capitale Dacca, l’atmosfera divenne esplosiva.

Le autorità proclamarono un coprifuoco che venne ignorato. Studenti e lavoratori si scontrarono nelle strade con le autorità e oltre 100 persone morirono. I proiettili non erano più un deterrente.

Quando le masse perdono la paura, questo segna la fine di qualsiasi regime. I giorni di Ayub Khan erano contati.

Il 21 febbraio quest’ultimo annunciò che non si sarebbe candidato alle elezioni del 1970, che sarebbero state le prime elezioni basate sul suffragio universale nella storia del paese.

Il comitato d’azione studentesco incontrò i rappresentanti dello Stato per chiedere la fine del coprifuoco e il rilascio dei prigionieri politici. Mujib fu rilasciato il giorno dopo, il 22 febbraio, davanti a una folla esultante.

Che vittoria! Tuttavia invece di placare le masse, il rilascio di Mujib ebbe l’effetto opposto: le masse si sentirono incoraggiate e il morale si rafforzò enormemente!

Fu una svolta nella rivoluzione. La massa dei lavoratori iniziò a quel punto a partecipare al movimento, seguita da vicino dai contadini nelle campagne.

Il Times, a marzo, descrisse la scena: “scioperanti di ogni professione, mestiere e occupazione, dai dottori ai ferrovieri, fino agli ingegneri statali, sfilano per le strade quasi ogni ora chiedendo migliori condizioni di lavoro e salari più alti… non si vede un’uniforme della polizia nelle strade di Dacca da quindici giorni”.

La rivoluzione procedeva a un ritmo inarrestabile. Ogni giorno sempre più lavoratori si univano agli scioperi. Bashani stava usando una retorica sempre più radicale, incoraggiando le masse a scendere in piazza. Incoraggiava i lavoratori ai gherao, il che significava tenere in ostaggio i padroni finché non avessero ceduto alle loro richieste. Le tattiche usate dal movimento contadino si erano ormai estese alla classe operaia.

Il 17 marzo fu indetto uno sciopero generale nazionale che ebbe successo, dove venne persino tagliata l’elettricità al palazzo presidenziale. Lo sciopero continuò fino al 25 marzo, quando Ayub Khan si dimise.

Sia nel Pakistan occidentale che in quello orientale, i contadini avevano iniziato a confiscare le terre e a istituire tribunali per assicurare alla giustizia gli odiati proprietari terrieri. Il loro slogan divenne “chi coltiva la terra, miete il raccolto” e “i proprietari terrieri dovrebbero andarsene”.

Ci furono 24 episodi di gherao nel Pakistan orientale, in cui i lavoratori presero il controllo di grandi fabbriche ed edifici governativi. Si formarono comitati di autogestione dei lavoratori nella maggior parte dei luoghi di lavoro.

In preda al panico, Ayub Khan dichiarò che “Le istituzioni amministrative sono paralizzate. Le folle ricorrono a gherao a piacimento e ottengono che le loro richieste vengano accettate sotto costrizione. (…) La situazione ora non è più sotto il controllo del governo. Tutte le istituzioni governative sono diventate vittime di coercizione, paura e intimidazione. (…) Ogni problema del paese viene deciso nelle strade”.

Aveva ragione! Esisteva un potere separato nella società con più autorità dello Stato. Questo era il potere della classe operaia organizzata attraverso i suoi comitati nei posti di lavoro.

Una situazione simile si stava sviluppando rapidamente in tutto il Pakistan. Ayub Khan fu costretto ad abdicare il 25 marzo, dimostrando la forza della rivoluzione.

Nel Pakistan occidentale, il leader populista di sinistra Zulfikar Ali Bhutto del Pakistan’s People Party (PPP) aveva la leadership del movimento.

Se Bhashani e Bhutto avessero guidato un’insurrezione per prendere il potere, si sarebbe potuta verificare una transizione pacifica del potere e si sarebbe formato un governo dei lavoratori basato sui comitati dei lavoratori, diffusi in tutto il Pakistan.

In questo scenario, al popolo bengalese sarebbe stata data la libera scelta democratica tra l’adesione a una unione volontaria con un Pakistan occidentale guidato dai lavoratori o la separazione completa. Una unione volontaria sulla base di uno Stato dei lavoratori avrebbe a sua volta consentito la diffusione del movimento nel Bengala occidentale e nel resto dell’India e, in ultima analisi, la formazione di una federazione socialista del subcontinente in cui il diritto all’autodeterminazione delle minoranze oppresse avrebbe avuto pieno riconoscimento.

Tuttavia, Bhutto si oppose aggressivamente al nazionalismo bengalese ed era determinato a mantenere l’unità forzata del Pakistan a qualsiasi costo.

I tradimenti dello stalinismo e del maoismo

Inoltre, Bashani non ha mai avuto intenzione di prendere effettivamente il potere. Credeva che prima si sarebbe dovuta conquistare l’indipendenza e solo allora si sarebbe potuto costruire il socialismo.

Invece di vedere i comitati dei lavoratori come i germogli di una nuova società e l’arma con cui ottenere l’indipendenza, li vedeva semplicemente come un mezzo per sfruttare le concessioni democratiche fondamentali da parte della classe dominante del Pakistan occidentale.

I discorsi demagogici in cui si minacciava una “guerra civile” non erano altro che aria fritta, mentre tentava disperatamente di mantenere una presa sulla leadership del movimento. Ciò derivava dal suo allineamento con la Cina di Mao.

Nel 1965, gli interessi particolari della burocrazia cinese si scontrarono con quelli dell’Unione Sovietica, portando alla rottura tra Cina e Urss. Ciò causò delle spaccature nella maggior parte dei partiti comunisti a livello mondiale.

Invece di fare appello alla rivoluzione internazionale e unire gli sforzi in una lotta globale contro il capitalismo, litigavano per l’influenza sulla scena mondiale, addirittura collaborando con i regimi capitalisti al fine di indebolirsi a vicenda.

Pertanto, per contrastare l’influenza sovietica nel subcontinente, la burocrazia cinese entrò in un blocco senza principi con l’imperialismo statunitense e, per estensione, con la classe dominante del Pakistan occidentale.

Un aspetto chiave di questa strategia era quello di utilizzare i partiti comunisti allineati alla Cina come strumenti della propria politica estera. Il NAP di Bashani e, più in generale, il popolo del Bangladesh, erano semplicemente pedine dei giochi cinici della burocrazia cinese.

Fondamentalmente ciò mise Bashani in una posizione impossibile. Avrebbe dovuto guidare la lotta per l’indipendenza, ma allo stesso tempo dare sostegno al loro oppressore, poiché Ayub Khan era un amico di Mao e della Cina.

Una collaboratrice di Bashani in quel periodo, ricorda la visita di quest’ultimo a Mao. Invece di tornare rinfrancato e armato politicamente per prendere il potere, tornò in uno stato d’animo serio e depresso e non fu mai più lo stesso.

Tutti i partiti di sinistra, sotto l’influenza dello stalinismo, si legarono alla falsa teoria delle “due fasi”. Questa consisteva nell’idea che i compiti della rivoluzione fossero di natura borghese e che, quindi, la rivoluzione socialista non fosse all’ordine del giorno e sarebbe stata possibile solo dopo un lungo periodo di democrazia borghese. In una ricerca folle di una inesistente “borghesia progressista”, i cosiddetti comunisti finirono in ogni sorta di alleanze bizzarre e senza principi.

Ad esempio, diversi raggruppamenti maoisti nel Pakistan orientale ignorarono la questione nazionale bengalese o vi si opposero attivamente. Addirittura alcuni partiti di sinistra dipinsero il regime di Ayub come progressista per l’industrializzazione che si stava realizzando in quel periodo. Quindi etichettarono il movimento rivoluzionario contro quest’ultimo come una cospirazione statunitense fomentata dalla CIA!
Questo completo fallimento politico da parte dei partiti “comunisti” stalinisti e maoisti fu esattamente ciò che permise a Bhutto e Mujib di conquistare la direzione dei movimenti rivoluzionari nel Pakistan occidentale e in quello orientale.

La carota e il bastone

L’intero paese si era fermato e la classe dominante esigeva il ritorno dell’ordine attraverso la sospensione della costituzione e l’attuazione della legge marziale. Ma Ayub stesso non poteva imporlo: era totalmente screditato. Il potere fu quindi consegnato al comandante in capo militare Yayha Khan.

Se Ayub brandiva il bastone, Yayha proponeva la carota. Annunciò nuove elezioni generali basate sul suffragio universale e alcune piccole riforme sindacali. La loro speranza era di incanalare il movimento entro limiti sicuri.

Ciò ebbe l’effetto desiderato, poiché molti bengalesi non avevano mai sperimentato una rappresentanza politica di questo tipo.

Senza una chiara comprensione di come realizzare una rivoluzione, Bhashani iniziò a perdere la sua autorità. In quel periodo, era in corso un dibattito su “la scheda elettorale o il proiettile”, ovvero elezioni o rivoluzione? Ma la concezione di rivoluzione di Bhashani era interamente limitata alla visione maoista della guerriglia contadina.

Infatti, uno dei suoi stretti collaboratori, sindacalista e leader del suo partito, Kaniz Fatima, molti anni dopo raccontò a un nostro compagno cosa successe quando Bhashani fece una visita a Karachi. Questa città era ed è la città più industrializzata e proletaria del paese. Mentre era lì, chiese ai membri del suo partito se ci fossero delle montagne vicino a Karachi. Gli risposero di no. Quindi scartò l’idea che fosse possibile fare una rivoluzione lì!

La sua incapacità di offrire una strategia chiara per l’indipendenza portò Bhashani e il NAP ad annunciare il boicottaggio delle elezioni. Sosteneva che le elezioni avrebbero rafforzato il Pakistan e che prima avrebbero dovuto essere risolte le questioni della fame e dell’indipendenza. Tuttavia, a quel punto il movimento di massa stava entrando in una fase di riflusso e le illusioni sulle elezioni stavano crescendo. Senza offrire un’alternativa rivoluzionaria praticabile, il boicottaggio delle elezioni era una tattica sterile. Il campo fu quindi lasciato completamente aperto alla Lega Awami di Mujib.

Ciò equivaleva a un’abdicazione dalla lotta. Creò un enorme vuoto politico che Mujib era fin troppo disposto a colmare.

La domanda fondamentale in quel momento era quale carattere avrebbe assunto la rivoluzione. Bhashani non avrebbe accettato che la rivoluzione assumesse un carattere socialista, perfino quando questa gli stava passando davanti agli occhi! Tutte le tattiche e le azioni derivavano dalla falsa idea delle due fasi.

Le elezioni

L’oppressione nazionale dei bengalesi aveva prodotto un movimento rivoluzionario lungo linee di classe. Si sarebbe potuta risolvere solo se la classe operaia avesse preso il potere alla testa dell’intera nazione. Ma poiché la leadership dei lavoratori si era rifiutata di farlo, la classe operaia bengalese fu spinta tra le braccia dei nazionalisti della classe media.

La Lega Awami sotto Mujib era il partito delle classi medie bengalesi emergenti. La maggior parte della direzione della Lega Awami era composta da piccoli e medi proprietari terrieri e imprenditori, e il partito si basava saldamente su questo strato della società.

Erano disposti ad appoggiarsi sull’ondata del movimento delle masse per fare pressione sull’élite al potere del Pakistan occidentale per ottenere concessioni. Ma anche se il loro linguaggio divenne molto radicale, riflettendo lo stato d’animo del movimento, non erano né disposti né in grado di andare fino in fondo. La loro intera strategia si basava sul tentativo di trovare una soluzione negoziata.

In realtà, il movimento di massa per la liberazione nazionale era completamente legato alla questione della proprietà. I contadini occupavano le terre e gli operai occupavano le fabbriche. Ciò terrorizzava i leader della classe media della Lega Awami, che temevano (giustamente) che un Bangladesh indipendente sarebbe stato travolto dalla lotta di classe e che l’intero processo si sarebbe potuto concludere con l’abolizione del capitalismo.

L’élite pakistana al potere riponeva le sue speranze sul voto nel Pakistan orientale essendo diviso tra partiti nazionalisti, islamisti e contadini. Questo gli avrebbe consentito di attuare il divide et impera e aspettare che le masse si demoralizzassero.

Ma stavano terribilmente sbagliando i loro calcoli. Sottovalutarono l’odio ardente dei bengalesi verso l’élite al potere nel Pakistan occidentale, che per decenni li aveva sottoposti a una povertà estrema e all’oppressione nazionale.

Senza alternative politiche, il 7 dicembre 1970, la Lega Awami di Mujib ottenne 160 seggi su 162 nel Pakistan orientale. Ciò diede ai nazionalisti bengalesi non solo una schiacciante maggioranza nell’Est, ma anche una maggioranza in tutto il Pakistan con il 39,2% dei voti espressi!

L’élite al potere fu inorridita da questo risultato, che era di fatto un mandato per l’indipendenza e la disgregazione del Pakistan.

Mujib chiese la convocazione immediata dell’Assemblea nazionale, in cui la Lega Awami aveva la maggioranza assoluta.

La rivoluzione acquista nuovo vigore

La borghesia e i proprietari terrieri del Pakistan occidentale non avrebbero mai potuto accettare un Bangladesh indipendente. Ciò avrebbe significato perdere il diritto di sfruttarlo come una colonia e la fine dei super-profitti che stavano realizzando lì. Ciò avrebbe dato anche un impulso alla lotta delle tante altre nazionalità oppresse che compongono il Pakistan. Inoltre, uno Stato bengalese, amico dell’India e con un proprio esercito, avrebbe indebolito enormemente la loro posizione nella regione.

Il super-sfruttamento dei bengalesi era quindi legato alla loro oppressione nazionale da parte dei pakistani occidentali più ricchi, quindi l’unico modo per risolvere questo era rovesciare quelli che li sfruttavano: i capitalisti.

Mujib, tuttavia, non era disposto a rompere con il capitalismo e ad andare oltre gli angusti limiti della democrazia borghese. Era inorridito dal fatto che l’élite al potere del Pakistan occidentale, con il suo atteggiamento aggressivo, non avrebbe fatto alcuna concessione, affermando persino “non si rendono conto che sono l’unico che può fermare i comunisti” (Bangladesh: The Unfinished Revolution, Lawrence Lifschultz, Zed press, Londra, 1979).

In altre parole, Mujib non aveva alcuna prospettiva di lotta contro il dominio della classe dominante del Pakistan occidentale. Sperava piuttosto in un accordo marcio, in cui non ci fosse la piena indipendenza e in cui la borghesia locale bengalese avrebbe ottenuto un po’ di autonomia e condiviso il bottino frutto dello sfruttamento dei lavoratori e dei contadini locali. La borghesia avrà sempre più paura della classe operaia che di un “rivale” borghese. Sarebbero stati felici di accettare la sottomissione da parte di un’altra borghesia se ciò significasse mantenere alcuni dei loro privilegi, piuttosto che perderli tutti a causa di una rivoluzione socialista.

Il 1° marzo 1971, Yayha Khan rinviò la convocazione dell’Assemblea nazionale, scatenando una furiosa reazione delle masse bengalesi.

Un testimone oculare descrisse la scena quando la notizia si diffuse a una partita di cricket:

Molti spettatori portarono con sé le loro radioline, non appena seppero del rinvio della sessione parlamentare, si scatenò l’inferno. 40-50.000 persone lasciarono lo stadio e scesero in piazza gridando ‘joi bangla’, slogan nazionalista del Bengala Occidentale che significa ‘Vittoria al Bengala’.

Tutte e tre le strade di fronte all’hotel [erano] piene di persone armate di sbarre di ferro e bastoni di bambù… c’era un falò di bandiere pakistane e ritratti di Jinnah [il fondatore del Pakistan].

La frusta della controrivoluzione aveva dato nuova linfa vitale alla rivoluzione. Uno sciopero generale fu convocato dalla Lega Awami sotto la pressione delle organizzazioni studentesche della sinistra radicale.

Il traffico stradale, i negozi, le fabbriche e gli uffici sono chiusi. Tutti hanno risposto con tutto il cuore alla chiamata allo sciopero pubblico… persino il mercato del pesce e della verdura è stato chiuso” (Of Blood and Fire: The Untold Story of Bangladesh’s War of Independence 1989, Jahanara Imam).

In risposta, venne annunciato un coprifuoco e dichiarata la legge marziale, in cui si vietava la pubblicazione di tutte le notizie ostili al governo. Ma il coprifuoco venne ignorato.

Vennero erette barricate mentre per tutto il giorno e la notte le masse si scontrarono con la polizia. I leader studenteschi di sinistra stavano facendo pressione su Mujib affinché dichiarasse l’indipendenza il 3 marzo. Quest’ultimo tenne una conferenza stampa, e tutti si aspettavano che la annunciasse. Vennero delusi. Fece invece appello alla “non-cooperazione non violenta”.

Un testimone oculare della conferenza affermò: “Non ha detto nulla. Ma sembrava piuttosto cupo” (Of Blood and Fire: The Untold Story of Bangladesh’s War of Independence 1989, Jahanara Imam).

I leader studenteschi convocarono invece una loro manifestazione di massa a Paltan Maidan, leggendo il “programma di indipendenza”. Uno dei principali leader studenteschi, A. S. M Abdur Rab, srotolò la nuova bandiera del Bangladesh davanti a una folla esultante.

Mujib stava rapidamente perdendo il controllo della situazione e veniva spinto molto più lontano di quanto fosse originariamente disposto ad andare.

Gli scontri di strada continuarono inarrestabili. Un annuncio molto atteso doveva essere fatto da Mujib il 7 marzo e attirò 300.000 persone da ogni dove. Tuttavia, “lo sceicco (Mujib) deluse tutti” nuovamente (Of Blood and Fire: The Untold Story of Bangladesh’s War of Independence 1989, Jahanara Imam).

Ci furono accesi dibattiti, giorno e notte in ogni posto di lavoro, università, poi riunioni di massa, persino all’interno delle famiglie, su dove si sarebbe diretto il movimento per l’indipendenza.

Si producevano e si distribuivano poesie, canzoni, vignette e adesivi nazionalisti rivoluzionari. Ogni ora sulla rete televisiva di Dacca, che era stata occupata dai dipendenti, veniva trasmessa arte rivoluzionaria nuova e fresca, ispirando migliaia di persone a unirsi alla rivoluzione per l’indipendenza.

Nel giro di due settimane, le masse erano andate ben oltre l’angusto nazionalismo della Lega Awami e volevano ottenere la vittoria con mezzi rivoluzionari.

Il movimento sembrava inarrestabile. Tutti i partiti politici, le organizzazioni studentesche, i sindacati, le associazioni professionali e i collettivi di artisti convocarono una grande manifestazione per il 23 marzo, intitolata “Giornata della resistenza”.

Questo era il momento. Era giunto il momento per una mossa decisiva e la presa del potere. Questo è ciò che le masse speravano che accadesse quel giorno.

Era ovvio a questo punto che senza l’eliminazione dei capitalisti e dei proprietari terrieri del Pakistan occidentale il programma in 11 punti non si sarebbe potuto realizzare.

I ricchi pakistani occidentali non avrebbero mai rinunciato volontariamente alla loro proprietà delle banche, dell’industria, della terra e non avrebbero permesso il fiorire di una democrazia liberale.

Se fosse esistito un autentico partito comunista radicato in ogni luogo di lavoro, comunità e villaggio, avrebbero potuto trasformare lo sciopero generale in un movimento di espropriazione dei proprietari terrieri e dei capitalisti del Pakistan occidentale, nazionalizzare le banche e le alte sfere dell’economia sotto il controllo dei lavoratori e ottenere una vera indipendenza con pochissimo sangue versato.

Senza una direzione chiara, tuttavia, il giorno che aveva così tanto potenziale si concluse come una specie di festa di massa. Ancora una volta, l’opportunità di prendere il potere era passata. Ciò avrebbe avuto conseguenze disastrose.

“La notte nera”

Il 25 marzo 1971, la popolazione del Pakistan orientale si svegliò con “suoni assordanti di armi pesanti, suoni intermittenti di mitragliatrici, il rumore sibilante dei proiettili”. “Si udirono urla di angoscia e le grida assordanti delle vittime” (Of Blood and Fire: The Untold Story of Bangladesh’s War of Independence 1989, Jahanara Imam).

L’invasione dell’esercito pakistano aveva lo scopo di annegare la rivoluzione nel sangue in quella che sarebbe stata chiamata la “Notte nera”. Fu annunciato un coprifuoco a tempo indeterminato, i partiti politici furono banditi e Mujib insieme ad altri leader furono arrestati dalle autorità pakistane.

Questo costituì un brutale intervento militare contro una popolazione civile disarmata.

Il partito fondamentalista islamico Jamaat-e-Islami fornì truppe all’esercito del Pakistan occidentale per formare una forza paramilitare controrivoluzionaria. Questi gruppi, insieme all’esercito, commisero una sistematica campagna di omicidi e violenze sessuali brutali.

Fu commesso un genocidio contro il popolo bengalese. Il numero dei morti è sconosciuto, ma le stime ufficiali variano da 300.000 a 3 milioni. Migliaia di donne bengalesi furono violentate e 8,9 milioni di persone furono costrette a fuggire dal paese come rifugiati.

Questo fu il prezzo che il popolo bengalese soffrì per l’indecisione della sua direzione codarda. La politica debole e indecisa di Mujib invitò all’aggressione l’élite al potere nel Pakistan occidentale.

La violenza di una classe dominante decrepita e feroce, messa alle strette era inevitabile, a meno che la classe operaia e quella dei contadini non prendesse il potere nelle proprie mani.

La politica di Mujib di esortare le masse a mantenere le loro rivendicazioni entro i limiti della democrazia le disorientò completamente.

Non fu fatta alcuna preparazione per questo evento inevitabile: le masse erano disarmate e, di conseguenza, milioni di persone morirono nelle circostanze più brutali. Una classe dominante o una casta non ha mai rinunciato al proprio potere e ai propri privilegi senza combattere.

Mujib si era lasciato catturare dalle autorità del Pakistan occidentale. Anche fino alla sua cattura, continuò a implorare Yayha di raggiungere un compromesso. Era persino disposto ad accettare un programma di indipendenza annacquato che, in pratica, avrebbe comunque significato la sottomissione da parte del Pakistan.

Quando si trova di fronte al movimento delle masse, una direzione piccolo-borghese tradirà sempre non appena si inizia a andare oltre i suoi ristretti interessi e quando la proprietà privata stessa viene minacciata. Nelle parole di Henry Joy McCracken, un leader della rivolta irlandese del 1798, “I ricchi tradiscono sempre i poveri”.

Formazione dei Mukti Bahini

L’invasione interruppe la crescente ondata rivoluzionaria. Molti abbassarono la testa e cercarono di proteggere le loro famiglie o abbandonarono completamente il paese.

Per gettare sale sulle ferite, il primo premier cinese, Zhou Enlai, scrisse a Yayha Khan il 13 aprile 1971 dicendo: “Il governo e il popolo cinese, come sempre, sosterranno fermamente il governo e il popolo pakistano nella loro giusta lotta per salvaguardare la sovranità dello Stato e l’indipendenza nazionale.” Lo aiutarono anche attraverso la fornitura di armi e sostegni finanziari al Pakistan occidentale.

Questo fu un tradimento difficile da tollerare per molti che guardavano alla Cina di Mao come fonte di ispirazione. Ciò lasciò ampie fasce di giovani disorientate e senza guida.

Ma dietro le quinte, una parte significativa degli ufficiali di grado più basso e delle truppe si erano radicalizzati a causa della brutale violenza inflitta dall’esercito del Pakistan occidentale al loro stesso popolo.

Le unità femminili dei Mukti Bahini

Uno di questi ufficiali era Abu Taher, che disertò l’esercito del Pakistan occidentale e si unì alla resistenza, diventando comandante dell’11° settore. In seguito avrebbe svolto un ruolo significativo negli eventi rivoluzionari successivi all’indipendenza.

Fuggirono in campagna per formare il Mukti Bahini (Esercito di liberazione) con gli elementi più temprati e con spirito di sacrificio della gioventù e intrapresero una lotta di guerriglia.

Molte donne si unirono al Mukti Bahini in unità femminili e combatterono coraggiosamente fianco a fianco con gli uomini. Le donne rischiarono anche la vita come spie, trasportando rifornimenti, curando i feriti e persino trasformando le loro case in ospedali improvvisati. Le donne ebbero un ruolo determinante nella rivoluzione e nella guerra d’indipendenza!

Gli ufficiali radicali

Il 10 aprile 1971 fu istituito a Calcutta, nel Bengala occidentale, un governo del Bangladesh in esilio (governo di Mujibnagar).

Ne venne attratto un settore di funzionari statali, intellettuali e comandanti militari. Coordinarono il comando “ufficiale” del Mukti Bahini con l’assistenza dello Stato indiano.

Il comando “ufficiale” fu formato dall’élite militare bengalese, sostenuta dal governo della Lega Awami in esilio che voleva intraprendere una guerra convenzionale con una struttura di comando di ufficiali regolari.

Non avevano le forze numeriche per sferrare un colpo decisivo contro l’esercito pakistano occidentale, quindi facevano molto affidamento sull’appoggio dell’esercito indiano.

Lo Stato indiano, pur rendendo omaggio all’indipendenza bengalese, aveva reali interessi materiali per intervenire.

Temevano che il movimento potesse facilmente diffondersi nel Bengala occidentale e poi in tutta l’India. Volevano controllare questo movimento, poiché aveva il potenziale per andare oltre i limiti del sistema capitalista nell’Asia meridionale.

Tuttavia, non hanno mai voluto occupare il Bangladesh e annetterlo all’India. Ciò avrebbe probabilmente portato a un’ulteriore diffusione del movimento.

La soluzione migliore che si auguravano era uno Stato del Bangladesh, amico dei capitalisti indiani, che avrebbe costituito una parte fondamentale della loro strategia regionale per indebolire i loro rivali.

Infatti, dopo gli eventi del 1971, l’India aveva la possibilità di imporre una sconfitta schiacciante al Pakistan. Ma la classe dominante indiana aveva bisogno dello spettro di un acerrimo rivale sulla base delle differenze religiose al loro confine per distogliere l’attenzione delle masse all’interno del paese. Ciò era pienamente in linea con il piano originale dell’imperialismo britannico, che divise l’India in base a linee religiose nel 1947.

Tendenze opposte iniziarono a cristallizzarsi all’interno del Mukti Bahini sui metodi e le tattiche della resistenza.

La forza principale del comando “ufficiale” che lavorava con l’esercito indiano era guidata dall’ufficiale in pensione dell’esercito pakistano, il generale M.A.G. Osmany. Il comando operativo sul territorio indiano a Tripura era guidato da Khaled Musharraf, con la brigata del Nord sotto il comando di Ziaur Rahman, che avrebbe continuato a svolgere un ruolo controrivoluzionario dopo l’indipendenza.

D’altra parte, c’erano ufficiali radicali come Abu Taher che rifiutavano il sostegno dell’India e volevano trasformare la guerra in una guerra rivoluzionaria di indipendenza basata sulle comunità dei villaggi.

Questa era la posizione dell’estrema ala sinistra del movimento nazionalista, che in seguito formò il partito Jatiya Samajtantrik Dal (Partito Nazionalsocialista, o JSD), che inviò consapevolmente quadri del partito nelle campagne e nelle città per convincere contadini e giovani a unirsi ai Mukti Bahini.

Taher si stava costruendo un’enorme autorità all’interno della base dei Mukti Bahini attraverso il suo ingegno militare e il suo messaggio politico. A metà settembre guidò una campagna di successo a Chilmari che spezzò il controllo militare del Pakistan sul Bengala settentrionale.

Quindi puntò gli occhi su un’altra conquista strategica fondamentale: l’assedio di Kamalpur il 24 ottobre, che fu infine conquistata il 14 novembre, con Taher che perse una gamba in quell’occasione.

Il passo successivo nella strategia di Taher fu quello di lanciare un assalto finale a Dacca con un esercito rivoluzionario di contadini e giovani.

I campanelli d’allarme iniziarono a suonare nell’alto comando militare bengalese, nel governo della Lega Awami in esilio e nella classe dominante indiana.

Quest’ultima capì che se Taher avesse raggiunto la città con 100.000 combattenti rivoluzionari, sarebbero apparsi come i liberatori in modo simile ai ribelli cubani e all’Armata Rossa cinese. Ciò avrebbe significato un disastro per il capitalismo indiano, che era alle prese con una crisi economica. Anche lì, la classe dominante stava lottando per tenere a freno la lotta di classe, soprattutto nel Bengala Occidentale.

L’avanzata di un esercito rivoluzionario avrebbe scatenato la rivoluzione in tutto il subcontinente. Ciò non poteva essere tollerato dalla classe dominante indiana, motivo per cui il 3 dicembre 1971, l’India inviò una truppa di 150.000 soldati, che raggiunsero Dacca prima del Mukhti Bahini.

L’India intervenne e salvò la situazione per le classi dominanti. In un colpo solo, riuscirono a ottenere la fine della guerra: sciogliendo le comunità dei villaggi e disarmando le guerriglie di sinistra. In secondo luogo, salvarono l’esercito pakistano dall’ira della popolazione locale, che li avrebbe puniti per gli orribili crimini commessi durante la guerra. La punizione delle masse avrebbe mandato un forte messaggio alle classi dominanti di tutti i paesi della regione.

Invece, generali indiani e pakistani stavano bevendo e cenando insieme, ricordando ridendo i “bei vecchi tempi” quando prestavano servizio insieme nell’esercito britannico. Circa 90.000 militari pakistani e le loro famiglie furono portati in India come prigionieri di guerra.

Il 16 dicembre, l’esercito pakistano si arrese e la gente scese in piazza gridando slogan bengalesi e issando la bandiera dell’indipendenza.

L’esercito indiano fu accolto a Dacca con scene di giubilo. Le atrocità commesse dall’esercito pakistano e le insopportabili condizioni di guerra facevano sì che le masse accettassero qualsiasi mezzo per fermare la guerra, anche se ciò significava l’invasione di un esercito straniero!

Conseguenze

Nel suo libro che racconta in prima persona la guerra di liberazione, Jahanara Imam riassume lo stato d’animo del dopoguerra:

Le linee telefoniche ed elettriche non sono ancora state ripristinate. Chi lo farà? L’intera città ride e piange allo stesso tempo. La gente è felice perché finalmente è libera, ma il prezzo che ha dovuto pagare con il sangue è stato immenso.

Migliaia di persone avevano dato la vita per la lotta per l’indipendenza. Ma come sarebbe stata l’indipendenza e su quali basi avrebbe preso forma?

Mujib fu nominato primo ministro del nuovo Stato indipendente del Bangladesh dalle autorità indiane, che speravano avrebbe gestito l’economia nel loro interesse.

Aveva ancora autorità agli occhi della maggioranza della popolazione bengalese e la classe dominante indiana poteva contare su di lui come un paio di mani sicure per realizzare i propri interessi.

Mujib aveva ottenuto ciò che voleva. Aveva promesso di ripristinare “legge e ordine” e di attuare una “democrazia in stile Westminster”.

Tuttavia, il Bangladesh indipendente era sprofondato in uno stato di barbarie. L’economia era completamente paralizzata.

Le infrastrutture del paese erano in rovina. Oltre 300 ponti ferroviari e 270 ponti stradali erano stati danneggiati, circa 10 milioni di persone avevano dovuto lasciare le proprie case, lasciando fabbriche e fattorie inutilizzate, e la terra era stata devastata da inondazioni e carestie.

La natura peculiare della guerra significava che nonostante la sua fine fosse stata in gran parte pianificata dall’esercito indiano, la piccola manciata di potenti proprietari terrieri e capitalisti del Pakistan occidentale fu cacciata via con la forza, lasciando vaste fasce di terra e fabbriche vuote.

La borghesia bengalese era troppo debole come classe per colmare il vuoto lasciato, e così il regime della Lega Awami sotto Mujib fu costretto a nazionalizzare il 93% dell’industria, l’80% del commercio internazionale e tutte le banche commerciali locali.

Fu solo sulla base della cacciata dei proprietari terrieri e dei capitalisti del Pakistan occidentale che fu ottenuta l’indipendenza formale. Se fosse esistito un partito comunista rivoluzionario, ciò avrebbe potuto essere fatto con mezzi rivoluzionari e progressisti e con un minimo spargimento di sangue.

Tuttavia, persino i democratici piccolo borghesi più “radicali” come Mujib hanno dimostrato che da soli, non sono disposti e non sono capaci di farlo, finché non vengono lasciati senza altra scelta. Continuarono a frenare il movimento.

L’indipendenza fu conquistata nonostante Mujib e la Lega Awami.

Il movimento fu spinto avanti solo attraverso la partecipazione attiva delle masse in ogni fase. Assunsero posizioni molto più avanzate dei loro leader e spinsero per l’indipendenza con la pura forza della volontà rivoluzionaria.

Invece, a causa della codardia e del tergiversare di Mujib e della Lega Awami, la cacciata dell’élite pakistana occidentale fu completata attraverso un conflitto prolungato e sanguinoso che costò milioni di vite.

Il JSD

Mujib tornò in un paese diverso da quello che si era lasciato alle spalle. Il paese era stato decimato dalla guerra e dalla carestia.

Mentre la maggior parte dell’industria era stata nazionalizzata, l’obiettivo primario di Mujib e dell’élite al potere era quello di ristabilire l’ordine e di coltivare una classe capitalista bengalese locale.

Ordinò ai Mukti Bahini di consegnare le armi e poi reintegrò molti vecchi burocrati del precedente regime, l’80% dei quali aveva scandalosamente collaborato con il regime pakistano!

Nel febbraio 1972, in una purga di ufficiali radicali, Taher fu rimosso dal suo incarico militare.

Mujib non poteva contare sui militari, poiché erano o collaboratori del Pakistan o radicali di sinistra. Pertanto istituì la Jatiya Rakkhi Bahini (JRB), o Forza Nazionale di Difesa, una forza paramilitare personalmente fedele a lui.

La JRB commise molte atrocità sconcertanti. Mentre ufficialmente era stata istituita per combattere il contrabbando e i trafficanti del mercato nero, la maggior parte del loro lavoro era dedicata a schiacciare le organizzazioni di sinistra attraverso la violenza, lo stupro e la tortura.

Nell’aprile del 1972, l’ala di estrema sinistra del movimento nazionalista e il Mukti Bahini si separarono definitivamente dalla Lega Awami e formarono un nuovo partito, il Jatiya Samajtantrik Dal (JSD), che fu costretto a operare clandestinamente.

I suoi quadri provenivano principalmente dai leader studenteschi radicali del periodo rivoluzionario alla fine degli anni ’60. Il segretario generale del partito era A. S. M Abdur Rab, un importante leader del comitato d’azione studentesco.

Dopo il loro licenziamento, Abu Taher e altri ufficiali radicali si unirono al JSD, dove comandarono l’ala militare armata del partito, il Biplopi Gono Bahini (Esercito popolare rivoluzionario).

Taher trasse conclusioni ancora più radicali, definendosi persino marxista. Era disgustato dalla corruzione delle élite militari e dalla riabilitazione dei criminali di guerra, il che lo portò a concludere che la vera indipendenza del Bangladesh poteva avvenire solo attraverso una trasformazione socialista della società, idee per le quali avrebbe poi dato la vita.

L’economia post-indipendenza

La Lega Awami era composta principalmente da piccoli e medi proprietari terrieri e imprenditori. Questi burocrati emergenti della classe media erano individui molto ambiziosi che aspiravano a diventare la classe capitalista bengalese locale. Utilizzavano l’apparato statale per accumulare una notevole ricchezza.

C’era un enorme spreco, corruzione e nepotismo nelle industrie nazionalizzate. Gli amministratori delegati delle grandi aziende venivano semplicemente richiamati al loro posto per gestire le industrie gestite dallo Stato.

La maggior parte degli aiuti esteri ricevuti veniva intascata dai vertici del partito della Lega Awami. Ad esempio, il presidente di Dacca della Lega Awami e presidente della Mezzaluna Rossa, Gazi Gulam Mustafa, operava nel mercato nero con proventi multimilionari. Venne introdotto il razionamento, il che significava che i funzionari statali potevano fare un sacco di soldi vendendo merci a prezzi esagerati a persone disperate e affamate.

Il contrabbando divenne un’attività multimilionaria. Il governo della Lega Awami offrì “certificati di combattente per la libertà”, che garantivano alle persone un accesso favorevole alle razioni. Questi, tuttavia, vennero venduti al mercato nero al miglior offerente. Perfino i collaborazionisti pakistani (razakars) misero le mani su alcuni di questi certificati.

Oltre all’economia devastata dalla guerra, nel 1974 si verificarono le peggiori inondazioni nella storia del paese, che portarono a una carestia che uccise circa 1,5 milioni di persone.

Tra il 1974 e il 1975 l’inflazione fu del 51%. I prezzi del riso aumentarono bruscamente e il costo della vita quadruplicò, mentre i salari raddoppiarono solamente.

La corruzione aperta della leadership della Lega Awami disgustò le masse, che stavano vivendo sofferenze inimmaginabili. Mujib passò dall’essere l’eroe della nazione all’uomo più odiato del paese.

Il regime fu un regime di crisi fin dal primo giorno. Scoppiarono dispute tra fazioni all’interno della Lega Awami e dell’apparato statale.

Rapidamente, iniziò a emergere la resistenza al regime. Nel dicembre 1973, la JSD organizzò una manifestazione di 100.000 persone e poi, a gennaio e febbraio, organizzò due scioperi generali. A marzo, organizzò una “marcia della fame” verso la casa del ministro degli Interni. La polizia aprì il fuoco, uccidendo 30 persone in quello che divenne noto come il massacro di Minto Road.

Nel dicembre 1974, durante le celebrazioni dell’Eid, fu ucciso un membro del parlamento. Il regime usò questo come scusa per dichiarare lo stato di emergenza.

I partiti politici furono banditi, le libertà di stampa e di riunione furono abolite e il parlamento fu sciolto in una coalizione chiamata BAKSAL.

Questa era una coalizione di partiti “pro-indipendenza” uniti nel parlamento. Ma essenzialmente questo parlamento rispondeva a Mujib e solo a Mujib. Aveva il potere di porre il veto su qualsiasi legislazione tramite il parlamento.

Una democrazia libera, moderna e borghese era impossibile. Le contraddizioni all’interno del nuovo Bangladesh indipendente erano troppo esplosive per essere controllate.

La vita economica e lo stato di diritto esistevano a malapena. L’aspirante borghesia bengalese nativa era, a questo punto, una classe troppo debole per imporre la propria autorità sul paese. Erano completamente terrorizzati dalle masse. Invece di consentire alla classe operaia di votare tramite elezioni democratiche, dovettero nascondersi dietro alla figura di un uomo forte a cui sarebbe stato affidato il compito di difendere i loro interessi.

La classe operaia non era stata in grado di prendere il potere nel 1970-71 a causa della codardia della sua leadership, portando a una temporanea situazione di stallo tra le classi.

Mujib iniziò a bilanciarsi tra le classi, concentrando sempre più potere nelle sue mani.

Tentò di presentare il BAKSAL come una “seconda rivoluzione”. Questa non era una rivoluzione, ma piuttosto un tentativo di riaggregare la sua base di sostegno per colpire la classe sempre più potente dei contrabbandieri, dei trafficanti nel mercato nero, degli ufficiali dell’esercito ribelli e dei burocrati statali.

Incredibilmente, questa coalizione coinvolgeva il Partito Comunista del Bangladesh guidato da Moni Singh, che sciolse il partito nel BAKSAL e subordinò completamente la linea del partito a Mujib.

Tuttavia, la base di sostegno di Mujib tra le classi medie non esisteva più. Erano state completamente rovinate dalla guerra, dalla carestia e dalla povertà. Non era più il loro salvatore.

Si verificavano delle divisioni ai vertici, soprattutto all’interno dell’esercito. L’ala pro-pakistana e pro-USA stava diventando sempre più scontenta per essere stata allontanata del potere e avere perso i propri privilegi.

I segni erano chiari per Mujib. Era sospeso a mezz’aria in attesa di essere cacciato dal potere. Il 15 agosto 1975, un gruppo di ufficiali dell’esercito scontenti con tendenze pro-pakistane e pro-USA irruppe nella residenza di Mujib, uccidendo lui e la sua famiglia.

Khondaker Mostaq Ahmed ricoprì il ruolo di presidente. Tuttavia, ispirò poca fiducia a chiunque.

Questi burocrati e ufficiali dell’esercito erano stati principalmente razakar durante la guerra d’indipendenza e quindi erano completamente disprezzati dalle masse.

Con un sostegno quasi nullo tra la popolazione, fu presto sostituito dal generale di brigata Khaled Musharraff che fu messo al potere con un contro-colpo di Stato il 3 novembre. Quest’azione fu guidata da una piccola parte della Lega Awami e del corpo ufficiali che erano stati fedeli a Mujib e allineati con l’India.
Nuovamente, queste persone non avevano alcun sostegno tra la popolazione o tra i ranghi dell’esercito: essere il candidato della continuità della carestia e della corruzione non portava appeal popolare.

C’erano profonde divisioni tra la cricca al potere su come stabilizzare la situazione.

In ultima analisi, le spaccature ai vertici della società lasciarono un vuoto per l’intervento delle masse. C’era il timore di una guerra civile tra le fazioni. Gli ufficiali che appoggiavano Mujib furono assassinati in prigione e la situazione sembrava sfuggire al controllo.

Ziaur Rahman, un ufficiale ambizioso, fu rimosso dall’incarico di capo di Stato maggiore dell’esercito e arrestato dai golpisti.

A causa della mancanza di una chiara alternativa politica, le masse trovarono la loro espressione nel partito JSD.

Al momento dei colpi di Stato, il JSD aveva costruito una base considerevole tra i giovani, i contadini e settori della classe operaia.

Con profonde spaccature al vertice, videro l’opportunità di intervenire e prendere il potere. Il 7 novembre 1975, circondarono Musharraf e i suoi uomini e fecero uscire il generale Zia dalla prigione. Quindi invitarono la classe operaia, i contadini e i giovani a manifestare nelle strade.

L’insurrezione fu guidata principalmente da ufficiali che si erano radicalizzati nel movimento rivoluzionario e nella guerra d’indipendenza. Avevano fondato un’organizzazione chiamata Biplobi Shainik Sangstha (Organizzazione dei soldati rivoluzionari). Taher disse addirittura: “La nostra rivoluzione non consiste semplicemente nel cambiare una direzione con un’altra. Questa rivoluzione ha un solo scopo: l’interesse delle classi oppresse.”

L’organizzazione di un’insurrezione era del tutto corretta. Le divisioni al vertice avevano lasciato un enorme vuoto di potere che doveva essere colmato.

In caso contrario, sarebbero state inevitabili o la guerra civile o una dittatura militare.

A questo punto, l’intero apparato statale era paralizzato. Il potere era stato posto su un piatto d’argento per la JSD che era alla testa delle masse.

Sfortunatamente, la JSD, pur definendosi marxista, aveva un programma eclettico, un miscuglio eterogeneo di posizioni.

Invece di un programma di classe indipendente, di espropri e la democrazia operaia, chiedevano un governo delle cosiddette “forze progressiste” favorevoli all’indipendenza nazionale.

Trassero la conclusione che la classe operaia non possedeva ancora la coscienza necessaria per gestire la società da sola, quindi il potere doveva essere affidato a un “attore neutrale”.

Zia fu messo al potere. Nel giro di una settimana arrestò tutti i leader dello JSD, incluso Taher, che fu giustiziato mesi dopo, il 21 luglio 1976.

La dirigenza dello JSD pensava che Zia “potesse essere utilizzato per la causa della politica dei lavoratori”. (Political and Organisational Report: 7 November and Following Events, 4th issue, 23 February 1976, p. 14). Chiaramente non era così. In realtà, Zia aveva aspettato il momento giusto dietro le quinte, aspettando di vedere da che parte avrebbe tirato il vento per poi colpire nel momento opportuno.

La collaborazione di classe finisce sempre in rovina. La classe operaia può avere fiducia solo nelle proprie forze.

Senza una classe sociale in grado di affermare il proprio dominio, c’era un solo possibile risultato: una spietata dittatura bonapartista per schiacciare i lavoratori, i giovani e i contadini rivoluzionari.

L’insurrezione fu annegata nel sangue. Questo fu l’ultimo chiodo nella bara che pose fine al periodo di tempesta e tensioni. I vertici della JSD non furono in grado di riorientarsi correttamente e commisero l’errore fatale. Questo segnò l’inizio della loro degenerazione.

Oggi, il JSD è l’ombra di se stesso. Ha abbandonato ogni parvenza di politica di classe rivoluzionaria e ha semplicemente seguito il dispotico regime della Lega Awami di Sheikh Hasina in nome della lotta al “male maggiore” del BNP.

Zia e il partito da lui creato, il BNP, hanno governato il paese con il pugno di ferro, privatizzando i beni di proprietà statale, allineandosi all’imperialismo statunitense e incoraggiando i fondamentalisti islamici di destra. La controrivoluzione era tornata saldamente al posto di comando.

Riallacciare il nodo della storia

La questione nazionale è stata formalmente risolta per i bengalesi nell’ex Pakistan orientale. Tuttavia, oggi il Bangladesh è una delle nazioni più povere al mondo. È completamente dominato da multinazionali straniere che, in collaborazione con lo Stato corrotto, impongono condizioni di lavoro distopiche.

Negli ultimi 53 anni, il popolo bengalese ha potuto scegliere come governanti tra due gruppi corrotti di gangster: il BNP o la Lega Awami.

Come ha osservato una volta James Connolly:

Se domani rimuovete l’esercito inglese e issate la bandiera verde sul castello di Dublino, i vostri sforzi saranno vani, a meno che non vi mettiate a organizzare la Repubblica socialista. L’Inghilterra vi governerà ancora. Vi governerà attraverso i suoi capitalisti, attraverso i suoi proprietari terrieri, attraverso i suoi finanzieri, attraverso l’intera serie di istituzioni commerciali e individuali che hanno piantato in questo paese e annaffiato con le lacrime delle nostre madri e il sangue dei nostri martiri.

Se sostituiamo i nomi dei paesi e i colori delle bandiere coinvolte, otteniamo una descrizione profetica del corso degli eventi in Bangladesh.

Oggi, la rivoluzione bengalese rimane incompiuta. Tuttavia, mentre scriviamo queste righe, si apre un nuovo capitolo in condizioni molto più favorevoli.

L’industrializzazione successiva all’indipendenza del Bangladesh ha forgiato una classe operaia estremamente potente che conta 73,69 milioni di persone. Questa cifra è maggiore dell’intera popolazione del Pakistan orientale nel 1970! L’equilibrio di forze di classe si è drasticamente spostato a favore della classe operaia.

Questa settimana, l’eroico movimento studentesco e i battaglioni pesanti della classe operaia hanno rovesciato il regime omicida di Hasina.

Il regno del terrore di Hasina, durato 16 anni, ha incontrato lo stesso destino di Ayub Khan: si è concluso con una rivoluzione popolare di studenti e lavoratori. Gli studenti hanno coraggiosamente aperto la strada. Ma è stato solo quando la massa dei lavoratori, e in particolare i lavoratori del potente settore tessile, hanno iniziato a muoversi, che il regime è crollato come un castello di carte.

La classe operaia in Bangladesh, la diaspora in tutto il mondo e gli studenti in particolare stanno riscoprendo la loro ricca eredità rivoluzionaria.

Il nodo della storia si sta riannodando. Ma per ottenere la vittoria, le masse del Bangladesh devono imparare dagli errori del passato e riprendere da dove si era fermata l’ultima rivoluzione. La storia della rivoluzione del Bangladesh dimostra che, a meno che il dominio del capitale non venga spezzato, la vera democrazia e la liberazione nazionale rimarranno un’aspirazione lontana.

Oggi, la dittatura di Hasina non c’è più. Ma ci sono dei pericoli. La rivoluzione è incompleta. Al momento in cui scrivo, si sta formando un nuovo governo. I liberali si sforzeranno di ricostruire la legittimità dello Stato capitalista dietro questo governo. A loro volta, i generali, gli alti ufficiali, i capi della polizia e la magistratura si nasconderanno dietro di esso, in attesa che si accumuli la forza necessaria per sferrare un colpo in risposta alla rivoluzione.

Come comunisti lanciamo un avvertimento: la rivoluzione rimarrà incompleta finché il vecchio Stato capitalista non sarà completamente distrutto! I lavoratori, gli studenti e le masse oppresse devono prendere il potere nelle loro mani. I comitati di lavoratori e studenti devono diffondersi, collegarsi e prendere il potere!

Negli anni ’70, la collaborazione di classe dei leader ufficiali del movimento per l’indipendenza ha portato il movimento in un vicolo cieco. I generali hanno atteso il loro momento dietro le quinte e hanno sferrato un colpo decisivo per porre fine al movimento di massa.

Per garantire che questo risultato non abbia la possibilità di ripetersi, l’ala più rivoluzionaria degli studenti deve iniziare la formazione di un partito comunista rivoluzionario, attorno a un chiaro programma marxista. Un partito del genere deve sforzarsi di fondersi con l’avanguardia della classe operaia del Bangladesh e porre all’ordine del giorno la presa del potere da parte dei lavoratori e la distruzione del dominio capitalista. Invitiamo i rivoluzionari del Bangladesh che leggono questo testo e che sono d’accordo con la nostra analisi a unirsi a noi, a unirsi all’Internazionale comunista rivoluzionaria, nell’iniziare questo compito storico.

 

9 agosto 2024

 

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