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27 Luglio 2024Mettiamo a disposizione tre articoli che abbiamo pubblicato sul nostro giornale Rivoluzione nel corso di quest’anno che abbiamo dedicato al centenario della morte di Lenin.
Lenin era un dittatore?
di Marina Wildt
Quando nei media si scrive o si parla di Lenin, la sua figura viene spesso associata a una forma di potere dittatoriale sovrapponibile al successivo potere burocratico stalinista. È centrale oggi contrastare queste posizioni, fatte proprie anche dagli anarchici, non solo per fare giustizia storica intorno a uno dei rivoluzionari più importanti del ’900, ma soprattutto per poter utilizzare in maniera genuina la sua esperienza teorica, politica e militante nelle lotte che ci troveremo ad affrontare in futuro. Le accuse nei confronti di Lenin spesso si focalizzano su due fronti: la dittatura di Lenin nel partito bolscevico e la dittatura del partito bolscevico nello Stato sovietico.
Lenin e il partito bolscevico
Che Lenin abbia avuto un ruolo centrale nella direzione politica e tattica del partito bolscevico è fuor d’ogni dubbio. Questo ruolo però non era legato a una forma di potere personale o burocratico, ma alla sua capacità di analisi politica che meglio, in quel momento storico, riuscì a interpretare e portare avanti la volontà delle masse.
Il partito bolscevico non era un partito di capi ma un partito che, basandosi sul centralismo democratico, raggiunse dei livelli di democraticità interna molto più elevati rispetto a qualsiasi partito parlamentare odierno: la discussione avveniva a ogni livello dell’organizzazione coinvolgendo appieno tutti i suoi militanti. La direzione era molto lontana dall’essere monolitica e le posizioni differenti al suo interno non venivano solo tollerate, ma considerate fondamentali per affinare continuamente la tattica del partito.
Lo stesso Lenin si trovò spesso in minoranza, come nell’aprile del 1917, quando si oppose con forza alla linea conciliazionista di sostegno al Governo Provvisorio, pur non avendo l’appoggio di nessuno degli esponenti più importanti del gruppo dirigente. Nonostante il suo iniziale isolamento, alla conferenza panrussa del partito bolscevico di fine aprile gran parte delle posizioni che aveva sostenuto Lenin nelle Tesi d’Aprile furono approvate grazie al sostegno che avevano avuto dalla base del partito. Questo esempio è utile per mostrare quanto i bolscevichi fossero abituati alla discussione democratica interna e quanto Lenin fosse lontano dall’essere un capo indiscusso del partito, che poteva semplicemente dettarne la linea.
Lenin e lo Stato sovietico
La rappresentazione di Lenin come leader indiscusso all’interno del partito è spesso accompagnata dalla rappresentazione della Rivoluzione d’Ottobre come un colpo di Stato che non portò alla conquista del potere da parte della classe lavoratrice, ma alla conquista del potere da parte del partito bolscevico. Questa analisi, oltre che a mostrare una completa sfiducia nella possibilità delle masse di acquisire coscienza politica, distoglie l’attenzione dal fatto che l’insurrezione ci fu solo dopo che i bolscevichi avevano ottenuto la maggioranza nei soviet delle principali città russe. Questo sostegno fu ottenuto avanzando, tramite una discussione paziente, una chiara posizione rivoluzionaria che mettesse al centro l’uscita immediata dalla guerra, la redistribuzione delle terre ai contadini e che tutto il potere andasse ai soviet. Dopo la rivoluzione tutti questi punti vennero rispettati e divenne chiaro che non si trattava di vuote promesse “elettorali” fatte dai bolscevichi per ingannare la classe lavoratrice, ma di uno sforzo sincero, diretto a spostare il potere nelle mani di questa classe.
La democrazia operaia che si formò dopo l’Ottobre, aveva la sua base fondante nei soviet, consigli locali formati da delegati votati direttamente dagli operai, contadini e soldati di una certa zona. Questi delegati, dovendo riflettere nella maniera più fedele possibile i reali orientamenti dei lavoratori, potevano essere revocati in ogni momento. Chiunque ricopriva un incarico, così come i commissari del popolo, non potevano ricevere un salario maggiore rispetto al salario medio di un operaio.
La carica di presidente di consiglio dei commissari del popolo, anch’essa revocabile in ogni momento, fu ricoperta nei primi anni successivi alla rivoluzione da Lenin. Anche come presidente, Lenin si trovò in varie occasioni ad essere in minoranza nel partito – come, ad esempio, riguardo l’accettazione o meno dei termini della pace di Brest-Litovsk.
Il governo bolscevico tentò di includere nell’amministrazione del potere statale, non solo formalmente ma nella pratica, il numero più ampio di lavoratori possibili; in questa direzione furono intraprese delle campagne di alfabetizzazione e di avvicinamento alla politica di alcuni settori della società che, a causa delle loro condizioni materiali, avevano maggiori difficoltà a farlo.
Per lo sviluppo di uno Stato operaio sano, in cui ci si pone l’obbiettivo di rappresentare gli interessi della maggioranza della popolazione, la presenza di una democrazia operaia vitale e reale non è una questione secondaria, ma determinante. La linea del partito unico (e della criminalizzazione delle frazioni), istituzionalizzata da Stalin successivamente, è molto lontana da quella adottata dai bolscevichi subito dopo la rivoluzione: la messa fuori legge di alcuni partiti, infatti, non dipese dalle differenze politiche che c’erano tra questi partiti e i bolscevichi, ma dalla loro decisione di prendere le armi assieme agli eserciti bianchi contro il governo dei soviet e, quindi, contro la rivoluzione.
Questa breve descrizione della struttura del potere sovietico ci mostra quanto in realtà la sua democraticità fosse molto più sostanziale di quella presente nelle democrazie borghesi di oggi. La partecipazione politica nel sistema capitalista si riduce alla possibilità di eleggere dei propri rappresentanti – non revocabili e non tenuti a rispettare il programma con cui sono stati eletti – ogni quattro anni.
Le campagne di denigrazione, che ancora a cento anni dalla sua morte, vengono portate avanti contro Lenin, sono una prova tangibile di come la sua esperienza politica venga percepita dalla classe dominante come una minaccia per il sistema capitalista. La necessità di difendere e riprendere Lenin e la Rivoluzione russa oggi, quindi, è quanto di più lontano da un tentativo nostalgico di rifugiarsi nel passato: al contrario ci permette di usufruire degli strumenti politici e teorici che meglio nella storia del capitalismo hanno permesso un suo superamento.
(da Rivoluzione n. 107)
Lenin, le masse e il partito
di Emanuele Nidi
Secondo un luogo comune consolidato, il leninismo è la teoria del controllo burocratico del partito sulle masse. Attorno a questo cliché si è sviluppata una vera e propria mitologia, anche tra chi si richiama al comunismo. Giova fare un po’ di chiarezza. È senz’altro vero che Lenin fu il dirigente rivoluzionario che più di ogni altro contribuì a definire e precisare la concezione marxista del partito. In effetti, la struttura organizzativa di cui si dotarono i bolscevichi fu un elemento fondamentale nel determinare la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre. Ma ridurre il leninismo a questo aspetto, peraltro in modo caricaturale, significa non comprendere nulla della dialettica tra organizzazione politica e movimenti spontanei, che fu sempre al centro della riflessione di Lenin.
Un comunismo autoritario?
Innanzitutto sgomberiamo il campo da un altro mito. Per contrabbandare l’immagine di un Lenin “comunista autoritario” si è spesso evocata la figura di Rosa Luxemburg, “comunista libertaria” e paladina della vera democrazia operaia. Stando a questa interpretazione, la rivoluzionaria polacca avrebbe aderito a concezioni ultra-spontaneiste, secondo le quali il partito dovrebbe avere il minor ruolo possibile per non soffocare l’autonomia della classe operaia in lotta. Ovviamente Rosa Luxemburg non sposò mai queste idee antimarxiste. Piuttosto, guardava con preoccupazione all’apparato pachidermico e alle tendenze conservatrici dell’organizzazione in cui militava, la socialdemocrazia tedesca. Era a questa degenerazione burocratica, e non alla forma partito in quanto tale, che indirizzava le sue polemiche più aspre. In effetti, se è vero che nella sua vita R. Luxemburg si trovò in diverse occasioni a difendere posizioni diverse dai bolscevichi, non mise mai in dubbio la necessità di un partito organizzato e centralizzato. Ma qual era la posizione di Lenin sulla questione?
Il mito del Che fare?
Il testo in cui si trova più materiale su questo tema è il Che fare?, scritto in polemica con gli “economicisti” che, all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, portavano avanti rivendicazioni strettamente sindacali, economiche per l’appunto, quasi che il ruolo di un’organizzazione comunista si potesse ridurre al sostegno delle lotte che spontaneamente si sviluppano in fabbrica. Se le cose stessero così le rivoluzioni sarebbero molto semplici! In ogni guerra l’organizzazione degli eserciti gioca un ruolo centrale nel garantire la vittoria sul nemico, e la lotta di classe non fa eccezione. Il partito deve fornire un mezzo di coordinamento, formazione e consolidamento di un’avanguardia che si ponga l’obiettivo di guidare la classe lavoratrice di battaglia in battaglia, fino alla presa del potere. Questo non vuol dire che senza un partito non vi possano essere lotte pienamente politiche. Nel fuoco dello scontro con lo spontaneismo, Lenin arrivò a dichiarare che la coscienza socialista poteva essere trasmessa agli operai solo “dall’esterno”, cioè da un’organizzazione. Ma si trattava di una formulazione polemica, più volte rigettata dallo stesso Lenin negli anni successivi, per quanto alcuni “leninisti” continuino a ripeterla a pappagallo.
Organizzazione e spontaneità
In realtà Lenin dimostrò per tutta la vita un’enorme fiducia nella creatività della classe operaia. Basterebbe a dimostrarlo l’entusiasmo con cui accolse la nascita dei soviet, nel pieno del movimento rivoluzionario che nel 1905 attraversò la Russia. I soviet, consigli di fabbrica democraticamente eletti e controllati dagli operai, non erano stati creati da un partito: erano al contrario l’espressione più chiara della tensione spontanea delle classi subalterne a organizzare forme embrionali di contropotere. I bolscevichi inizialmente mantennero un atteggiamento sospettoso e arrogante verso i soviet, rifiutando di aderirvi prima che questi avessero adottato il loro programma. Lenin, che in quel momento viveva da esiliato, lontano dalla Russia, era inorridito dalla linea dei suoi compagni. Condusse una battaglia furibonda perché i bolscevichi capovolgessero il loro approccio, sostenessero i neonati consigli operai e si preparassero con pazienza (ed umiltà) ad intervenire al loro interno. Sull’onda della Rivoluzione del 1905 condusse una campagna per conquistare al più presto all’organizzazione il massimo numero di lavoratori: “Sarei molto soddisfatto”, osservava, “se nei nostri comitati ci fossero otto operai per ogni due intellettuali”. Ironicamente, diversi bolscevichi, contrariati da questo reclutamento di massa, rinfacciarono a Lenin le vecchie formulazioni del Che fare?, suscitando lo scherno del dirigente bolscevico.
Lenin contro i “vecchi bolscevichi”
Non fu l’ultima volta che Lenin si trovò a lottare contro le tendenze conservatrici dei bolscevichi della prima ora, rivoluzionari onesti ma aggrappati a parole d’ordine e schemi superati. Nel pieno della Rivoluzione del 1917, dovette condurre una battaglia durissima all’interno del partito perché venisse adottato lo slogan “Tutto il potere ai soviet”. Vale la pena di ricordare che in quel momento i soviet erano sotto il controllo dei riformisti menscevichi e socialrivoluzionari. Con quella parola d’ordine, i bolscevichi chiedevano ai loro avversari di prendere il potere! Ma Lenin sapeva che l’unico modo per conquistare la fiducia dei lavoratori era sfidare i riformisti a fare quello che le masse desideravano di più e che loro temevano sopra ogni altra cosa: portare avanti la rivoluzione fino in fondo. Questo approccio dialettico fu centrale nel permettere ai comunisti di guadagnare la maggioranza nei principali soviet e conquistare il potere nell’Ottobre.
Lenin era a tal punto estraneo all’autoritarismo che perfino dopo la rivoluzione sostenne l’esigenza di mantenere l’esistenza di sindacati indipendenti, per difendere le istanze degli operai. In effetti, la possibilità che il nuovo Stato sovietico potesse elevarsi al di sopra delle masse lo preoccupava enormemente, al punto da dedicare alla lotta alla burocrazia gli ultimi anni della sua vita.
Attribuire a questo rivoluzionario l’etichetta di teorico del controllo verticistico sul movimento operaio è possibile solo attraverso citazioni decontestualizzate e vere e proprie mistificazioni. La realtà è che Lenin si trovò più volte a polemizzare con i suoi stessi compagni di partito proprio per difendere una concezione dialettica del rapporto tra organizzazione politica e azione spontanea della classe lavoratrice.
(da Rivoluzione n. 108)
Lenin contro Marx?
di Edoardo Bertolino
La storia del movimento comunista è caratterizzata da un paradosso: Marx, com’è noto, sosteneva che la rivoluzione sarebbe scoppiata inizialmente nei paesi a capitalismo avanzato, ma il sistema fu rovesciato per la prima volta in un paese economicamente e culturalmente arretrato, la Russia del 1917. Questa contraddizione era ben presente agli stessi comunisti russi.
L’analisi di Marx partiva da un dato materiale: nei paesi con un alto sviluppo industriale le forze produttive sono già sufficientemente razionalizzate e centralizzate, preparando la strada all’instaurazione di una economia pianificata; inoltre, i paesi più avanzati hanno necessariamente raccolto grandi masse lavoratrici intorno a poli industriali, creando così le condizioni favorevoli alla nascita di una coscienza di classe e alla diffusione delle idee comuniste.
Marx spiegò che anche in questi contesti le basi materiali per il socialismo sono manchevoli e che esso può essere davvero raggiunto solo a seguito di una rivoluzione mondiale, che permetta di sfruttare appieno il potenziale di un’economia organizzata a livello globale. Questo è l’aspetto fondamentale: sia Marx che Engels ritenevano che il socialismo avrebbe potuto affermarsi perfino in un contesto precapitalistico come quello della Russia di fine Ottocento, ma solo a patto di innescare un processo internazionale. Il carattere dialettico di questa analisi scomparve nell’elaborazione di molti epigoni, che si limitarono a ripetere meccanicamente che la rivoluzione sarebbe scoppiata nei paesi più avanzati. Da qui l’idea che Lenin abbia in qualche modo “forzato la mano” con la Rivoluzione d’Ottobre. Lenin tradì Marx? Per capirlo, è necessario analizzare il dibattito che si sviluppò nel movimento operaio russo proprio attorno al tema della rivoluzione.
Lenin contro i menscevichi
La sostanziale differenza tra i menscevichi e i bolscevichi riguardava ciò che doveva e poteva essere una rivoluzione in Russia.
I menscevichi sostenevano che, dal momento che a differenza dell’Inghilterra o della Francia la Russia non aveva mai conosciuto una rivoluzione borghese (si trattava di un paese capitalista, certo, ma con tratti semifeudali e governato da un’autocrazia), la rivoluzione dovesse essere guidata dalla borghesia. Basandosi su una interpretazione formalista del marxismo, i menscevichi riservavano solo alla borghesia la fiducia nelle possibilità di sviluppare le forze produttive capitaliste che avrebbero, in una fase storica successiva, fornito la base materiale per una rivoluzione proletaria. La posizione era, quindi, in sostanza, che bisognasse cedere, in una prima fase, il potere alla borghesia per poi conquistarlo successivamente.
La tesi dei bolscevichi, guidati da Lenin, era che la borghesia, al contrario, non avrebbe potuto assumere alcun ruolo progressivo, nemmeno nel portare avanti la “sua” rivoluzione. Questo perché la borghesia russa era troppo debole, troppo legata allo zarismo e alle influenze del capitale straniero. Difatti, a investire sul capitalismo russo erano le potenze europee, non certo la pseudo-borghesia autoctona. Lenin sosteneva che la conquista dei diritti democratici sarebbe potuta giungere attraverso una rivoluzione guidata da operai e contadini e che attendere la borghesia fosse inutile.
Con la sua teoria della “rivoluzione permanente”, Trotskij espanse questa visione, in una maniera che Lenin riconobbe, alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre, come corretta, uniformando nei fatti la sua interpretazione a quella del più giovane compagno. L’idea di Trotskij era che il proletariato russo dovesse sì portare a termine la rivoluzione borghese, ma non limitarsi a questo: una volta conquistato il potere, esso doveva necessariamente continuare ad avanzare verso il socialismo. Questo sin da subito, senza dividere la rivoluzione in due fasi come teorizzavano i menscevichi; bisognava sfruttare il potere acquisito per iniziare a edificare uno Stato operaio.
Si potrebbe dire che i menscevichi si basavano sulla previsione di Marx, così come i bolscevichi; tuttavia, ai primi mancava la creatività necessaria per far evolvere la teoria marxista e applicarla a contesti particolari come quello russo.
In ogni caso, nel 1917 la rivoluzione non si pose come problema astratto ma come un fatto concreto, inaggirabile. Non sempre l’evoluzione degli avvenimenti si conforma a un modello teorico. Al di là della volontà dei bolscevichi, il capitalismo si ruppe nel suo anello più debole e i rivoluzionari dovettero decidere se porsi alla guida del movimento o lasciarlo nelle mani dei loro nemici di classe.
La necessità dell’internazionalismo
Una cosa su cui tutti erano concordi, era che la rivoluzione dovesse essere mondiale. Il proletariato è estremamente sensibile alle conquiste dei suoi fratelli nelle altre nazioni, come dimostrano (tra i tantissimi esempi possibili) l’insorgere di forti movimenti proletari in tutta Europa, quali il Biennio Rosso in Italia, ispirati proprio dalla rivoluzione russa. Ciò in cui sperava Lenin era che la rivoluzione russa diventasse la scintilla per la rivoluzione europea e mondiale. Questa necessità è data da motivazioni estremamente simili a quelle che hanno portato alla globalizzazione: nessun paese può prosperare senza il commercio e l’acquisizione di risorse, conoscenze e supporto di vario genere dall’estero. Lenin era disposto a tutto pur di far sì che la rivoluzione si espandesse, poiché solo dopo la rivoluzione del proletariato mondiale si sarebbe potuta edificare una società socialista duratura. In particolare, Lenin puntava sugli operai tedeschi, dichiarandosi perfino pronto a sacrificare la rivoluzione russa in favore di quella tedesca, poiché una rivoluzione in Germania avrebbe posto basi molto superiori per la costruzione del socialismo di quanto la Russia al tempo non potesse fare.
La sconfitta del movimento rivoluzionario in Europa costrinse la Russia sovietica a un duro isolamento. Ma, nonostante le enormi difficoltà e gli orrori del regime stalinista, negli anni successivi alla morte di Lenin l’Unione Sovietica si trasformò da paese semifeudale a seconda potenza mondiale. A dimostrazione dell’enorme potenziale di un’economia pianificata, perfino nelle condizioni di partenza più svantaggiose.
Alla domanda iniziale possiamo quindi rispondere: da quando conobbe il materialismo dialettico, Lenin fu marxista in ogni momento della sua attività politica, non tradì mai gli ideali o i metodi del marxismo, ma anzi li applicò con ingegno e creatività, contro ogni vuoto formalismo.
(da Rivoluzione n. 109)