Rivoluzione n°36
18 Ottobre 2017Nazionalizzare l’Ilva!
19 Ottobre 2017di Luca Lombardi
La crisi del 2008 è arrivata dopo un lungo periodo di stagnazione delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Salari, pensioni, diritti e servizi sociali essenziali da anni vengono schiacciati dalla voracità della borghesia italiana e internazionale. Le contraddizioni tra paesi imperialisti provocano conflitti locali, guerre civili. L’emigrazione dovuta alla miseria dello sfruttamento imperialista si unisce all’emigrazione dovuta agli scontri militari in cui sono coinvolti direttamente o per procura i paesi occidentali, Siria e Libia ne sono gli ultimi esempi. La sinistra riformista vecchia e nuova, da Blair, Jospin e l’Ulivo a Syriza, incapace di opporsi alla rapacità padronale, si è messa a sua totale disposizione. Qualche dirigente riformista agita le parole d’ordine della destra sperando di guadagnare qualche consenso. Laddove non emerge un polo di aggregazione della rabbia delle masse, come è il caso di Podemos in Spagna, o di Corbyn in Gran Bretagna, si susseguono fenomeni i più strani: dal Movimento 5 Stelle al cosiddetto “sovranismo di sinistra”, che riflettono l’agonia di una piccola borghesia schiacciata dalla crisi, che si rende conto di non avere possibilità di contrattaccare il grande capitale (la narrazione del “piccolo è bello” è ormai morta e sepolta) e si accanisce alla ricerca di un colpevole. Gli immigrati sono il capro espiatorio perfetto da additare alle masse distrutte da decenni di austerità capitalistica. Se ne servono la destra, ilM5S per considerazioni di marketing politico, ma anche il PD che nei suoi atti politici è spesso indistinguibile dalla destra. Ancor più pericoloso, però, è che se ne servano correnti di sinistra passate alla propaganda nazionalista (i “sovranisti di sinistra” appunto)1 tuttora inserite nel movimento operaio.
Alcuni dati sull’immigrazione
La propaganda anti-immigrati si basa su una campagna mediatica martellante incentrata su fatti di cronaca veri o presunti e che parla di “invasione”. Su questo aspetto osserviamo solo che il “popolo dei barconi”, ossia i disperati dell’Africa subsahariana che arrivano in Italia dopo viaggi atroci nel deserto sino ai lager libici, costituisce una parte marginale degli immigrati che risiedono in Italia (180mila persone su 5 milioni, meno del 4%); gli sbarchi, poi, sono si aumentati per la guerra in Siria, ma già nel 2015 erano sensibilmente calati; senza contare che l’aumento (da 43mila nel 2013 a 170mila nel 2014) riguardava il punto di approdo in Europa, che per ragioni geografiche è spesso l’Italia, ma non la destinazione finale. I “sovranisti” (di destra e di sinistra) parlano però solo di questi immigrati, quelli “dei barconi”, per ovvie ragioni di propaganda.
Invasione a parte, l’aspetto più importante nella propaganda anti-immigrati è l’idea che ci “rubino il lavoro”. I sovranisti di sinistra ci piazzano la dizione esercito industriale di riserva per sembrare “compagni”. In realtà Marx nel Capitale spiega che, per funzionare, al capitalismo servono una certa proporzione di disoccupati, che costituiscono una riserva in caso di necessità delle aziende e un freno alle rivendicazioni operaie. I disoccupati, che ovviamente fluttuano con il ciclo economico e con il processo di innovazione tecnologica, costituiscono dunque un elemento costitutivo dell’economia capitalistica. L’economia capitalistica lo ricrea in qualunque condizione, al di là della dinamica demografica endogena o esogena, che si facciano molti o pochi figli, o che arrivino o meno immigrati. È tipico delle concezioni liberali o reazionarie del mercato del lavoro legare la disoccupazione ad eventi esterni (i lavoratori fanno troppi figli, arrivano gli immigrati, colpa dei sindacati, ecc.). Va da sé che l’esercito industriale di riserva preme sui salari, è appunto la sua funzione.
Veniamo alla logica anti-barconista. La propaganda dei sovranisti espone una società che funziona come un autobus affollato. Se l’autobus ha 100 posti e dentro ci sono già 80 persone e ne salgono 30, 10 non avranno dove sedersi. Il problema è che si tratta di un’analogia falsa. La necessità di forza-lavoro non è infatti una grandezza data e immutabile, come i posti di un bus, ma varia in base alla dinamica dell’economia, allo sviluppo tecnologico, alle politiche economiche. La forza-lavoro che serviva nel 1950 non è la stessa del 1980 o del 2000.
Da questo punto di vista, le argomentazioni anti-immigrati riecheggiano le teorie dell’economista inglese Thomas Malthus, secondo cui le risorse economiche crescevano per forza molto meno della popolazione e la responsabilità della povertà era quindi riconducibile alla crescita demografica. Invece che contro l’invasione degli immigrati, Malthus se la prendeva con le famiglie povere che facevano troppi figli, ma il succo del ragionamento è lo stesso, così come ugualmente reazionarie sono le conclusioni: abolire ogni politica di assistenza sociale che favoriva la sopravvivenza dei poveri.
In effetti, la disoccupazione ai capitalisti serve per far funzionare il loro sistema e la usano sempre; tanto che, quando si riduce l’afflusso di forza-lavoro, i capitalisti usano l’innovazione tecnologica per ricreare l’esercito industriale di riserva. Osserva infatti Marx nel Capitale che “le macchine non intervengono a sostituire forza-lavoro mancante, ma per ridurre la forza-lavoro presente in massa alla misura necessaria”, necessaria ovviamente al proseguimento dell’accumulazione capitalistica. Eliminare gli immigrati non ridurrebbe la disoccupazione.
Inoltre, se la quantità di forza-lavoro necessaria fosse data, qualunque aumento comporterebbe un aumento della disoccupazione. Quindi se più donne o disabili decidessero di lavorare, se nascessero più bambini: tutto concorrerebbe ad aumentare la disoccupazione. Qualunque esame dei dati mostra che questa idea è una panzana, anche perché altrimenti la disoccupazione sarebbe in crescita dalla notte dei tempi, dato che la specie umana è sempre più numerosa. Dato che la domanda di forza-lavoro dipende dalla crescita economica, per attaccare gli immigrati si dovrebbe dimostrare che l’immigrazione riduce la crescita economica: idea ovviamente mai dimostrata. Al contrario, se mai, una dinamica demografica positiva (endogena o aiutata dall’immigrazione) è un elemento che aiuta la crescita. Il ragionamento va dunque rovesciato: non solo se domani svanissero gli stranieri non ci sarebbero più posti di lavoro per gli italiani ma ce ne sarebbero meno. Facciamo alcuni esempi. 5 milioni di persone in meno e dunque 2-3 milioni di alloggi improvvisamente vuoti, significherebbero un collasso del mercato immobiliare con conseguente tracollo verticale dell’edilizia e dei settori connessi. Inoltre, non ci vuole un mago del mercato immobiliare per capire che scomparendo il 15-20% della domanda di alloggi, il valore di tutte le case crollerebbe anch’esso e, siccome il valore della casa costituisce la gran parte della ricchezza della quasi totalità degli italiani, la perdita di ricchezza per le famiglie italiane sarebbe nell’ordine dei trilioni di euro. Per fare un altro esempio: se sparissero gli oltre 800mila studenti di origine straniera, sparirebbero anche i corrispondenti posti di lavoro di insegnanti, personale amministrativo, e indotto corrispondente: dai libri alle pizzette. Ci sarebbero licenziamenti di massa in quel settore e, a cascata, in molti altri.
Veniamo ora ai dati. Se la teoria “immigrati ruba-lavoro” fosse vera, dovremmo avere maggiore disoccupazione, salari più bassi e meno diritti dove gli immigrati sono in numero maggiore e queste dinamiche dovrebbero essere conseguenti al loro arrivo. Per quanto concerne l’Europa, riportiamo una tabella con tasso di disoccupazione e proporzione di immigrati dei principali paesi dell’UE (almeno finché l’Inghilterra non se andrà)2:
Basta questa tabella a dimostrare che non c’è nessun legame tra proporzione degli immigrati e disoccupazione. D’altronde, se la disoccupazione dipendesse dagli immigrati, che aumentano costantemente, la disoccupazione dovrebbe crescere sempre. Prendiamo il grafico della disoccupazione britannica che è il paese che, per ragioni storiche, ha avuto per primo forti flussi di immigrazione3:
Il grafico è auto-esplicativo. Nell’ultimo mezzo secolo la disoccupazione inglese ha avuto alti e bassi connessi al ciclo economico e l’immigrazione non ha fatto nessuna differenza. Il caso italiano è particolarmente interessante perché, notoriamente, l’Italia ha un’economia fortemente spaccata tra nord e sud. A partire dagli anni 90, nelle zone di tradizionale immigrazione interna, si è aggiunto un flusso di immigrazione estera, tanto che la distribuzione di cittadini stranieri è fortemente diseguale: il 60% al nord, un quarto al centro e meno del 16% a sud. Dei capoluoghi di provincia in cui gli immigrati superano il 15% della popolazione, il più a sud è Firenze. Ci sono più immigrati in Lombardia che da Roma a Lampedusa. Le conseguenze dovrebbero essere ovvie! Il nord, già meta da decenni di immigrati delle valli, poi meridionali, e oggi anche stranieri, dovrebbe avere un mercato del lavoro al collasso. Ecco i dati del 20164:
Salta agli occhi che, se mai, la disoccupazione è bassa dove ci sono molti stranieri (per gli amanti della statistica, si osserva infatti una correlazione negativa dell’81% tra immigrazione e disoccupazione). Il fatto, alquanto ovvio, è che gli immigrati vanno dove c’è lavoro e lungi dal ridurre l’occupazione, la aumentano: infatti dopo numerosi decenni di immigrazione tuttora a Milano la disoccupazione è enormemente più bassa che a Napoli o in Calabria. Anche la dinamica della disoccupazione dimostra l’assenza di correlazione tra immigrati e disoccupati. Ad esempio, in Italia c’erano 2 milioni di disoccupati nel 2002 quando vivevano in Italia 1,3 milioni di immigrati; i disoccupati erano 1,7 milioni nel 2008, quando scoppiò la crisi (e gli immigrati erano più del doppio del 2002). Oggi gli immigrati sono 5 milioni e i disoccupati 3 milioni. La disoccupazione è legata alla crisi prolungata dell’economia italiana e non all’arrivo dei barconi. I dati regionali lo confermano ampiamente. Possiamo dunque concludere che l’affermazione immigrati=disoccupazione è una balla.
Veniamo ora al secondo aspetto: i salari. I dati confermano ampiamente quanto già visto per la disoccupazione. D’altra parte è ragionevole aspettarsi che dove c’è meno disoccupazione ci siano salari più alti in base alla logica dell’esercito industriale di riserva. È persino inutile ricordare che nel nord Europa i salari sono più alti che nei paesi dell’Europa mediterranea, che hanno anche una disoccupazione molto più elevata (e meno immigrati). Per inciso, era così 20 anni fa, era così 10 anni fa ed è così oggi; anche se nel nord Europa affluiscono molti più stranieri. Per riprendere il caso dei cinque principali paesi dell’UE abbiamo costruito una tabella in cui poniamo a 100 il salario tedesco e vediamo quanto è maggiore o minore quello degli altri paesi. I risultati sono i seguenti5:
Come si vede Italia e Spagna perdono terreno rispetto alla Germania mentre Gran Bretagna e Francia avanzano nel periodo di esistenza dell’euro. Ancora una volta non c’è nessun collegamento tra dinamica salariale e immigrati. Sappiamo bene che i salari reali sono fermi, se non in calo, ma questo vale da molto prima che iniziassero ad arrivare gli immigrati e vale ovunque, sia dove ne arrivano molti sia dove ne arrivano pochi. Sebbene inutile perché i dati sono ben noti, è opportuno ricordare che, anche in fatto di reddito, il nord Italia, dove si concentrano la gran parte degli immigrati, ha salari e redditi molto più alti e questo dato non è mutato con l’arrivo degli immigrati. Lo stesso vale per il PIL. Riportiamo i dati che l’Istat fornisce sino al 20126. Poniamo a 100 il PIL italiano e vediamo la differenza delle aree del paese:
I dati mostrano una sostanziale stabilità della situazione, nonostante dal ‘95 al 2012 centinaia di migliaia di italiani siano emigrati verso il nord (Italia o Europa) e nonostante l’arrivo in massa di immigrati al nord.
È interessante osservare che i dati europei sono confermati anche negli Stati Uniti un paese quasi interamente costituito da immigrati, vecchi e nuovi e dove i molti studi sul tema confermano quanto abbiamo spiegato. Ad esempio, uno studio del 2010 afferma che “l’immigrazione non ha un effetto significativo sui salari o sulla migrazione interna. Al contrario, i salari incidono sull’immigrazione: un aumento dei salari del 10% incrementa sino al 20% il flusso di immigrati”7. Un articolo di rassegna del Cato Institute del 2014 conclude: “Un cospicuo gruppo di ricerche economiche accademiche ha dimostrato che l’immigrazione ha un effetto relativamente piccolo sui salari dei lavoratori americani e sulle loro prospettive di occupazione…Gli effetti sull’occupazione variano poco ma, come i salari, gli effetti sono piccoli e sono raggruppati intorno allo zero”8. Immigrati e “nativi” sono parte della forza-lavoro e le loro sorti sono fortemente intrecciate, tanto che: “i tassi di disoccupazione per i nativi e gli immigrati si muovono nella stessa direzione con una correlazione del 92%”. Gli Stati Uniti mostrano bene che lo stesso concetto di lavoratore immigrato, come se fosse una categoria distinta, è totalmente fittizia. Se un abitante di New York va a vivere in California è più o meno lavoratore immigrato di un messicano che vive in California da 40 anni? Il fatto che il primo sia “nativo” è un aspetto puramente amministrativo. Il tema sono dunque le leggi che discriminano gli immigrati, come poi vedremo9. Dati simili si trovano per altri paesi, ad esempio la Gran Bretagna10 e per tutti i paesi avanzati nel loro complesso11.
Alcune recenti misure protezionistiche del governo Trump sono state accolte con gioia dagli anti-barconisti italiani, in quanto – secondo loro – volte a ridurre la globalizzazione. Il fatto stesso che possano concepire con favore il governo Trump è di per sé esplicativo della degenerazione di questi soggetti. Ad ogni modo sul tema del salario, la narrazione filo-trumpista è che cacciare gli immigrati irregolari aumenta i salari12. L’articolo riporta un grafico da cui si evince che il salario reale negli Stati Uniti è fermo dal 1974. Che cosa c’entra dunque l’immigrazione illegale del 2017? In attesa di analizzare dati meno campati in aria, ribadiamo l’aspetto chiave: la disoccupazione è creata dalla dinamica dell’accumulazione capitalistica. Per eliminare la disoccupazione bisogna eliminare la compravendita di forza-lavoro, ossia l’economia di mercato, non costruire peraltro inutili muri. Se i dati dimostrano che non c’è nessun legame tra disoccupazione e immigrazione, in Europa come negli Stati Uniti, gli anti-barconisti potrebbero però ribattere: non affermiamo che tutta la disoccupazione dipenda dagli immigrati, però non si può negare che influiscano sui salari, l’occupazione, ecc. In realtà si tratta di una sterile scappatoia. Se l’immigrazione avesse un effetto negativo significativo, verrebbe registrato nei dati, i quali, se mai, dimostrano proprio il contrario.
Mercato del lavoro e lotta di classe
L’unico modo per rendere gli immigrati ricattabili è quello di farne degli “illegali”; per questo motivo la borghesia, nei paesi avanzati, fa leggi che ostacolano l’immigrazione legale.
Il capitalismo in effetti attacca i lavoratori ogni volta che può, da sempre. Il declino dei salari e delle condizioni di vita dei lavoratori è iniziato con la sconfitta dell’imponente movimento di lotta partito nel ‘68 ed esauritosi un decennio più tardi. All’epoca, l’Italia esportava ancora massicciamente manodopera, e gli immigrati, tolti forse gli Stati Uniti, erano marginali nella forza-lavoro dei paesi occidentali. Eppure la disoccupazione è esplosa e i salari sono crollati. A quella sconfitta hanno fatto seguito una serie interminabile di leggi antioperaie. Nel caso italiano, la ritirata iniziò con la svolta dell’Eur13. Da lì, la cosiddetta marcia dei quarantamila, la fine della scala mobile sino al Pacchetto Treu, che introduceva il lavoro interinale, approvato nel 1996 con i voti di Rifondazione14, per arrivare – di arretramento in arretramento – sino al Jobs Act. Legare il precariato all’immigrazione è dunque una falsità che ha una finalità politica ovvia: rovesciare la colpa del declino delle condizioni di vita dei lavoratori sugli immigrati ed evitare le critiche alle direzioni marce del movimento operaio. Sembra che i dirigenti sindacali e della sinistra stessero lottando accanitamente contro i padroni quando venne avvistato il primo barcone e dovettero arrendersi. Ma Lama nel ‘78 annunciò la svolta dell’Eur perché arrivavano immigrati? I governi Prodi, che hanno privatizzato tutto, precarizzato il lavoro, distrutto la scuola pubblica, lo fecero costretti da ondate di sbarchi? È ovvio perché ai dirigenti riformisti conviene prendersela con gli immigrati, con ciò continuando il loro lavoro di servi fedeli dello stato borghese.
I padroni usano qualunque cosa per dividere i lavoratori, compresi i pregiudizi razzisti. Non c’è nulla di nuovo in questo. In una nota lettera del 187015, Marx descrive le divisioni in seno al proletariato britannico tra inglesi e irlandesi:
“In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime lo standard of life.. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese….L’irlandese lo ripaga con gli interessi. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda. Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo”.
Marx spiega che, poiché la cosa più importante è preparare la strada alla rivoluzione operaia in Inghilterra, il paese più sviluppato all’epoca, la direzione della Prima Internazionale si batteva per l’indipendenza dell’Irlanda. Abbiamo qui, dunque, una posizione di classe autenticamente rivoluzionaria, il contrario delle farneticazioni sovraniste che propongono un’unione nazionale contro gli immigrati. Peraltro, da Marx a oggi, la storia è piena di esempi in cui proprio le lotte hanno permesso di mettere da parte i pregiudizi razziali. Osservando la Milano o la Torino degli anni 60, i nostri amici sovranisti avrebbero visto una massa di ragazzi meridionali semi-analfabeti, magari spediti al nord con una raccomandazione del prete o della CISL, senza nessuna coscienza di classe. Ne avrebbero dedotto un disastro per le sorti della lotta di classe. Sappiamo invece com’è andata. L’antidoto al razzismo e ai pregiudizi è la lotta comune, non la rincorsa della destra. Invece, queste correnti sposano in pieno la narrazione nazionalista, compresa la storia degli immigrati italiani brava gente contrapposta ai barbari che ci invadono. La realtà è che in America emigrarono Sacco e Vanzetti, eroi del movimento operaio internazionale, ma anche Lucky Luciano e decine di altri boss mafiosi che servirono ad alimentare per anni il razzismo contro gli italiani, accusati di essere – indistintamente – mafiosi e assassini.
Marx osserva che alla borghesia fa comodo alimentare le divisioni tra i lavoratori; i sovranisti fanno un passo ulteriore: la borghesia crea immigrazione di proposito per ridurre i salari. Da qui le teorie complottiste sui piani di Soros e altri che andrebbero a rastrellare villaggio per villaggio questi poveracci e li stiverebbero sui barconi con direzione Sicilia. Solo che i barconi, come detto, rappresentano meno del 5% della forza-lavoro immigrata. Qualcuno costringerebbe il governo cinese, indiano, filippino, romeno, ucraino, marocchino a spedirci immigrati? In realtà, più semplicemente, la miseria e le guerre imperialiste conducono milioni di persone a scappare dal proprio paese e la borghesia cerca di approfittarne. Occorrerebbe se mai analizzare come secoli di dominazione imperialista in Africa e altri continenti abbiano ridotto queste terre, costringendo alla fuga milioni di persone. Come osservò Lenin di fronte al massacro della prima guerra mondiale, il vero nemico è in casa nostra: è la classe dominante del nostro paese.
Le aziende, soprattutto le maggiori, sfruttano lavoratori in ogni paese, disarticolando il processo produttivo a livello mondiale. La delocalizzazione è uno strumento di controllo salariale impossibile da fronteggiare chiudendo le frontiere. Se, dunque, un governo anti-immigrazione vincesse le elezioni, non potrebbe limitarsi a bloccare l’immigrazione: dovrebbe anche alzare muri protezionistici, cercare di uscire dal mercato mondiale e proiettarsi verso l’autarchia produttiva per impedire che il lavoro voli via. Al protezionismo italiano risponderebbe il protezionismo degli altri paesi, rendendo inefficaci le misure stesse16. Altrettanto controproducente è l’idea di dividere la forza-lavoro in categorie; questo è, a ben guardare, l’obiettivo di ogni “riforma” del mercato del lavoro. Il padronato tende a dividere la forza-lavoro mettendo uno contro l’altro per schiacciare tutti più facilmente. Chi parla di lavoratori immigrati contrapposti ai lavoratori italiani è dunque già totalmente nelle mani del nemico di classe. Questo non significa, ovviamente, non riconoscere particolari esigenze ad alcune categorie di lavoratori (basti pensare alle madri, agli studenti lavoratori, ai disabili, ecc.) ma queste esigenze producono diritti che si aggiungono a quelli che hanno già inquanto lavoratori e che occorre difendere tutti insieme. I ragionamenti anti-immigrati invece reclamano, nei fatti, diritti per qualcuno a scapito di altri, con ciò fomentando le divisioni e le sconfitte.
Se scimmiottare la destra non ha senso, nemmeno ha senso la posizione dei dirigenti riformisti che, quando non sono impegnati a inseguire la destra nella caccia all’immigrato (vedi accordi Minniti-gestori dei lager libici), al massimo propongono chiacchiere umanitarie mentre, contemporaneamente, massacrano i diritti dei lavoratori, oppure propongono il mito sempreverde dell’“Europa sociale” che, se faceva ridere dieci anni fa, dopo il trattamento riservato dalla troika al popolo greco, oggi è semplicemente criminale.
L’unica proposta utile ai lavoratori sul tema dell’immigrazione è quella di una linea di classe: la disoccupazionenon è colpa degli africani, come ieri dei meridionali o delle donne,ma dei padroni che ne hanno bisogno per fare più profitti. Eliminare la disoccupazione senza eliminare il capitalismo è come salvare una nave che affonda gettando fuori l’acqua con un secchiello. Che cosa significa concretamente far pagare la crisi ai padroni? Imporre la riduzione dell’orario a parità di salario. Ci sono due milioni di disoccupati? Si riduca l’orario di lavoro del 10% a parità di salario e si creino corsi di formazione adeguati a riorientare e riassorbire la manodopera in eccesso. La risposta del padronato sarebbe ovvia: sciopero degli investimenti, chiusura di fabbriche. La contro risposta non potrebbe essere che togliergli le fabbriche e iniziare a gestirle sotto il controllo operaio, pianificando l’economia in base ai nostri bisogni e non per massimizzare i loro profitti. Lo stesso vale per il problema della casa. Non ci sono case per tutti? Si requisiscano quelle che i fondi immobiliari, le assicurazioni ecc., tengono vuote per controllare i prezzi. Si sviluppi un piano di edilizia pubblica che riqualifichi il patrimonio immobiliare esistente e ne crei di nuovo se necessario. Anche in tal caso prevediamo l’ovvia risposta dei “realisti”: dove troveremo i soldi? Li prenderemo, per esempio, ai loro amici padroni che, tra evasione fiscale, evasione contributiva, riciclaggio, ecc., si intascano una cinquantina di miliardi di euro l’anno. In sintesi bisogna scegliere se si vuole unire i lavoratori in un programma anticapitalista o se si vuole aiutare i padroni a sfruttarli dividendoli. Le condizioni per una lotta comune ci sono. Pur nel contesto generale di difficoltà delle lotte operaie degli ultimi anni, i lavoratori immigrati, lungi dal costituire una riserva di passività, hanno dato luogo a lotte esemplari per coraggio e radicalità.Il settore della logistica è da questo punto di vista ricco di esempi, come si è visto di recente con la meravigliosa lotta alla SDA che, come succede tristemente spesso nella storia del movimento operaio, registra già i suoi martiri17. I lavoratori stranieri, come prima di loro i lavoratori meridionali, si sono dimostrati disposti a combattere, soprattutto quando a chiamarli alla lotta sono stati sindacati non compromessi da anni di accordi vergognosi e totale asservimento ai padroni. Ad ogni modo, nei sindacati confederali e di base ci sono decine di migliaia di lavoratori immigrati che, mentre gli anti-barconisti farneticavano di invasione, hanno costruito concretamente l’unità di classe.
Se i dirigenti sindacali e di sinistra hanno abbracciato la globalizzazione capitalistica nelle sue forme più letali, salvo vagheggiare correttivi “sociali”, la posizione espressa dal sovranismo di sinistra si può riassumere nell’idea che basta rifiutare la globalizzazione e il gioco è fatto. L’idea che si possa costruire, non già il socialismo – perché certo non a quello mira chi attacca gli immigrati – ma anche solo uno stato sociale keynesiano anni 70 in un solo paese, equivale all’idea di sfidare un esercito capitalista moderno con le lance e le frecce. La rivolta contro il capitale nel capitalismo moderno può avere una forma nazionale ai suoi inizi, ma ha necessariamente un obiettivo internazionale perché le condizioni sono le stesse ovunque. Se i lavoratori riuscissero a rovesciare la borghesia in Grecia, in Francia, in Portogallo o in Catalogna, riceverebbero l’immediata solidarietà attiva dei loro compagni in tutta Europa. Lungi dal rimanere rinchiusi nella loro fortezza, da cui magari respingere gli immigrati, i lavoratori di questo paese farebbero necessariamente un appello ai lavoratori degli altri paesi. Si aprirebbe la possibilità di rovesciare il capitalismo in tutto il continente e da lì su scala globale. Non a caso Marx ed Engels chiudono il Manifesto esortando i proletari di tutti i paesi a unirsi, e non a starsene a casa propria18.
Di fronte alla crisi del capitalismo che, anche nei momenti di crescita, non è in grado di migliorare significativamente il tenore di vita delle masse su cui scarica brutalmente le proprie contraddizioni, la ricerca del capro espiatorio rinvenuto ovviamente nell’immigrato, non è più solo appannaggio della destra razzista ma anche del centro moderato, della sinistra riformista e persino di qualche gruppetto stalinista ed ex stalinista. Tra i casi più eclatanti abbiamo Marco Rizzo, segretario del sedicente “Partito comunista”, o alcune componenti di “Eurostop”. La contraddizione investe anche Rifondazione, al cui interno sono tollerati dirigenti e militanti che propagandano posizioni lepeniste19. La strada per la riscossa del movimento operaio passa per una lotta serrata contro le idee sovraniste e razziste che sono un veicolo di propaganda reazionaria tra i lavoratori. Nelle battaglie comuni per salari e condizioni di lavoro dignitosi, per il diritto alla casa, contro la repressione dello stato borghese, i lavoratori – a qualunque latitudine del globo abbiano avuto la sorte di nascere – troveranno la strada per il loro futuro
Note:
1.Sulle idee “sovraniste” sull’Europa vedi F. Bavila, 2017, Antieuropeisti o anticapitalisti? (http://www.rivoluzione.red/antieuropeisti-o-anticapitalisti/).
2.Fonte: Commissione Europea (disoccupazione: http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Unemployment_statistics, immigrati: http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/File:Non-national_population_by_group_of_citizenship,_1_January_2016_(%C2%B9).png).
3. Fonte:ONS https://www.ons.gov.uk/employmentandlabourmarket/peoplenotinwork/unemployment/timeseries/mgsx/lms).
4.Fonte: ISTAT (http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_POPSTRRES1).
5.Fonte: OCSE (https://stats.oecd.org/Index.aspx?DataSetCode=AV_AN_WAGE). Poiché in Gran Bretagna come noto non c’è l’euro, abbiamo confrontato i dati convertendo i salari in dollari per entrambi i paesi.
6.Fonte: ISTAT (http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCN_VALPROCAPT). Come è ovvio, i dati sul reddito pro capite e sulla retribuzione sono sostanzialmente identici (vedi, ad esempio, il report ISTAT per il 2012: