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Il Mezzogiorno defraudato

Italy cut by a scissor

di Antonio Erpice e Alessandro Giardiello

 

Anche nel recente passato i meridionali sono stati oggetto di indegne campagne di stampo razzista, non solo da parte dei caporioni della Lega Nord,1 ma anche di esponenti di primo piano del Pd2 e della destra berlusconiana,3 che si inseriscono in quella tradizione fomentata dalla classe dominante per oltre un secolo e mezzo.
Il veleno anti-meridionalista è finito col penetrare in più occasioni anche tra le masse e i proletari del Nord Italia, particolarmente nelle fasi di riflusso sociale, fondamentalmente grazie al ruolo pernicioso svolto dalle direzioni riformiste del movimento operaio.
Come Gramsci ebbe modo di commentare: “È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura ‘meridionalista’ della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la ‘scienza’ era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato…”.4
Così come i comunisti torinesi dell’Ordine Nuovo nei primi anni ’20 dovettero reagire energicamente contro questa ideologia razzista, tocca oggi a noi polemizzare contro ogni sussulto razzista che punta a frazionare il movimento operaio italiano; così come su scala internazionale ci opponiamo a ogni tipo di divisione tra i lavoratori sulla base dell’etnia, del sesso, della lingua, della religione, delle opinioni politiche o qualsivoglia diversità reale o presunta.
Come è stato ampiamente argomentato, le ragioni del sottosviluppo del Sud risalgono ai tempi dell’Unità d’Italia. L’opera di mistificazione degli ideologi della borghesia per nascondere questa realtà è senza sosta. Ed è così che oggi, come in passato, si sprecano ettolitri di inchiostro per dimostrare che il Sud è una palla al piede, che ogni anno miliardi di euro si spostano dal Nord al Sud, che i cittadini del Nord pagano più di quelli del Sud, e via di questo passo. L’ultimo in ordine di tempo è stato Squinzi, già presidente di Confindustria, che segnalava che più che una Questione meridionale, c’è da affrontare e risolvere una “questione settentrionale”.
Andiamo a vedere come stanno realmente le cose, limitandoci a citare solo alcuni esempi che dimostrano come l’azione predatrice del Nord a spese del Sud del paese continua ad operare imperterrita sul terreno fiscale, creditizio, così come su quello degli investimenti.
Partiamo dalle tasse. Secondo i dati pubblicati il 21 novembre 2015 dalla Cgia di Mestre si rileva con chiarezza che, a parità di salario (stima fatta su una famiglia con 31mila euro di reddito annuo, proprietaria di una casa di 100 metri quadri e un auto di media cilindrata), sono le famiglie del Sud a pagare più tasse di quelle del Nord.5
Per quanto riguarda l’accesso al credito, Bankitalia fornisce un dato interessante: gli istituti di credito premiano il Nord in cui l’erogazione di finanziamenti è più fluida e penalizzano il Sud in cui i rubinetti sono chiusi. Il sistema bancario ha effettuato ad esempio impieghi in Calabria per 6 miliardi di euro (meno dell’1% del totale) e 216 miliardi in Lombardia. Ovvero 3mila euro pro-capite contro i 21.600 di un cittadino lombardo. Gli impieghi nella sola Lombardia sono più del doppio di quelli che le banche hanno concesso a tutte le regioni meridionali e insulari messe assieme.
Cosa fa il governo per compensare questo divario? Tra nuove assunzioni e trasformazioni di rapporti a termine, sono un milione e 158mila i contratti che nel 2015 hanno potuto beneficiare di sgravi contributivi concessi a chi assume un lavoratore a tempo indeterminato. Per finanziare l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, che allo Stato costa 3,5 miliardi in tre anni, il governo Renzi ha drenato risorse dai bilanci dei Ministeri, ma soprattutto dai fondi che le Regioni avrebbero dovuto spendere in base al Piano di azione e coesione che gestisce gli stanziamenti europei. Grazie all’Ufficio studi della società Demoskopika, sappiamo che il bonus fiscale si è configurato come un massiccio trasferimento di risorse dal Sud al Nord del paese. È, infatti, il Meridione a fare la parte del leone nella copertura finanziaria del bonus occupazionale: quasi 2 miliardi di euro sono stati prelevati in Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. La Sicilia dovrà fare a meno di 800 milioni, la Campania di 580, la Calabria di 373, la Puglia di 230. Con questi soldi, sono stati incentivati circa 538mila nuovi contratti di lavoro nelle regioni del Nord e 255mila in quelle del Centro. Il Sud e la sua economia depressa si sono, invece, dovuti accontentare del 31% delle assunzioni che hanno così generosamente contributo a finanziare.
E per quanto riguarda la politica sociale? Considerando le manovre portate avanti dal 2010 al 2015, i tagli alla spesa incidono per il 2,9% del Pil nel Centro-Nord e per il 5,7% nel Sud. Contrariamente alla vulgata di un Sud parassitario che sopravvive solo grazie alla spesa pubblica, veniamo da decenni di riduzioni e tagli dei fondi destinati al Sud! Vale anche per le spese della pubblica amministrazione: ad esempio, l’anno scorso, l’importo della spesa di personale per abitante è stato nei comuni meridionali più basso del 10% rispetto al dato nazionale. L’unico risultato ottenuto è che non vengono garantiti neppure i servizi essenziali sul terreno dell’istruzione, della sanità o dei trasporti e più in generale dell’insieme dello stato sociale.

Crisi economica e sottosviluppo6

Ed è così che in particolare dall’inizio della crisi, cominciata nel 2008, il Sud ha cominciato ad affondare sempre più. Per altro il declino è stato uniforme anche nel resto d’Italia: nella graduatoria delle regioni europee, dal 2000 al 2010 la Lombardia è scivolata dal 17° al 28° posto, l’Emilia Romagna dal 19° al 44°, il Veneto dal 28° al 55°, il Piemonte è sprofondato dal 40° all’84°. Per cui non sono in discesa solo le regioni meridionali.
Questa evidenza sconfessa la tesi di un Nord locomotiva del paese il cui slancio sarebbe frenato dal Mezzogiorno, al netto del quale figurerebbe tra le macroregioni più avanzate d’Europa. L’immagine è piuttosto quella di un treno – dalla locomotiva fino all’ultimo vagone – fermo alla stazione da tempo e incapace di ripartire, anche a vagoni vuoti.
Nel complesso del periodo 2001-2014 l’economia italiana è rimasta stagnante (-1,1%, rispetto al +17,9% della Ue) e il nostro è l’unico grande paese europeo in cui la dinamica della produttività è stata negli ultimi quattordici anni negativa. Al settimo anno di crisi ininterrotta, la riduzione del prodotto al Sud è risultata del 13%, quasi il doppio della flessione registrata nel Centro-Nord (-7,4%).
Il divario di sviluppo tra Nord e Sud in termini di prodotto per abitante ha così ripreso ad allargarsi, pur in pre-senza di una riduzione della popolazione meridionale: nel 2014 è tornato a un livello inferiore a quello del 2000, con un differenziale negativo di oltre 46 punti percentuali. È continuata la contrazione del processo di accumulazione, che oggi rappresenta
il maggiore freno alla ripresa, specie nel Mezzogiorno.
Tra il 2008 e il 2014 gli investimenti fissi lordi sono diminuiti cumulativamente nel Mezzogiorno del 38,1%, circa 11 punti in più che nel resto del paese (-27,1%).
La caduta degli investimenti ha interessato nell’ultimo settennio tutti i settori dell’economia, con una dimensione particolarmente ampia nell’industria in senso stretto, crollata al Sud addirittura del 59,3%.
Nel corso del 2015 e 2016, fattori esterni e interni hanno favorito un lievissimo cambio di intonazione nella congiuntura. Per quanto attiene ai primi, si segnala l’ampia caduta del prezzo del petrolio, che ha trovato riflesso in una dinamica inflattiva particolarmente contenuta, accrescendo il reddito disponibile delle famiglie. Inoltre, la politica monetaria espansiva ha favorito sia un parziale deprezzamento dell’euro che il proseguimento del trend ribassista nei tassi di interesse.
Ma si tratta di un dato congiunturale che non cambia le linee di tendenza fondamentali. La crisi non è affatto terminata, gli stessi economisti della classe dominante parlano oramai di “stagnazione secolare”.

Disoccupazione, emigrazione e condizione femminile

La conseguenza più evidente della crisi è la diminuzione vertiginosa degli occupati. Nel Mezzogiorno nel 2014 si registrano 335mila posti di lavoro in meno, con il numero degli occupati che torna ad essere pari a quello della fine degli anni ’90.
A farne le spese sono in primo luogo le giovani generazioni, considerando che al Sud il tasso di disoccupazione giovanile è al 40% (tra le giovani donne arriva al 51%): il doppio rispetto a quello di 35 anni fa.
Ma la condizione più grave è quella delle donne, la cui situazione non è legata solo alla mancanza di lavoro ma anche alla qualità dell’impiego che trovano. Il 67,6% delle donne che lavorano al Sud devono accontentarsi di un part-time perché non hanno trovato un lavoro a tempo pieno e una su cinque ha un contratto a termine. Le laureate, in oltre la metà dei casi, svolgono una professione che richiede un titolo di studio più basso. La disparità riguarda anche i salari: una donna meridionale guadagna meno del 70% della retribuzione media di un maschio del Centro-Nord. In questo contesto è inevitabile che per le donne si aprano le porte della marginalità sociale. Non stupisce, visti i tagli ai servizi sociali che aggravano ancora di più la situazione al Sud.
Se ne accorge anche la Svimez che segnala come riemerga con forza il modello sociale tradizionale, dominante al Sud, della donna, non lavoratrice, che viene relegata al ruolo di casalinga a cui spetta il ruolo di allevare i figli e accudire gli anziani e i disabili.
Ma le donne, in particolare quelle giovani, a differenza delle ondate degli scorsi decenni sono anche protagoniste, insieme ai loro coetanei, della ripresa su larga scala dell’emigrazione dal Sud in particolare verso il Nord, ma anche verso l’estero.
Negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud circa 2,5 milioni di persone, oltre un meridionale su dieci residente al Sud nel 2010. Il 25% di coloro che emigrano sono laureati.
Un’emigrazione che si differenzia da quella dei decenni scorsi perché vengono meno le rimesse che una volta ritornavano nei luoghi d’origine, considerando che spesso chi emigra oggi ha lavori precari o sottopagati e riesce a malapena a sopravvivere.

Qualche cenno storico

Come detto, il divario tra Nord e Sud comincia con l’Unità d’Italia e raggiunge il suo punto culminante in epoca fascista. Mussolini negherà l’esistenza di una Questione meridionale e nel mentre si occuperà di aggravarne l’entità intervenendo sulle già misere condizioni di vita delle classi rurali del Sud. Durante il ventennio fascista fu abolito il regime di proroga dei contratti agrari e i concedenti avevano libero agio di sfrattare fittavoli e coloni insolventi e di fissare i canoni locatizi in base alla contrattazione individuale. Furono cacciati dalle terre incolte i contadini che le avevano dissodate e bonificate a prezzo di duri sacrifici (decreto Visocchi), mentre nel 1934 la corporazione della agricoltura proponeva l’impiego delle compartecipazioni (restrizione della sfera salariale e ampliamento del compenso in natura). Si conobbe l’usura e furono diminuiti i salari al di sotto dei limiti imposti dagli stessi sindacati di regime.
Quando Mussolini venne destituito nel luglio del ’43, le campagne erano già in fiamme. Nel vuoto di potere che si creò tra la cacciata dei tedeschi e l’arrivo degli Alleati, scoppiò un’ondata di rivolte contadine e di occupazioni delle terre, con veri e propri assalti ai municipi. Riemersero con forza le grandi tradizioni rivoluzionarie delle masse meridionali.
Sul carattere della riforma agraria del ministro Gullo è stato già detto. Una riforma talmente minima che generò non poca delusione. La situazione divenne incandescente e i contadini, esasperati, non vedendo soddisfatte le loro richieste, si lanciarono verso nuove occupazioni, non solo di terre incolte, mal coltivate o nient’affatto curate, ma talvolta anche di quelle coltivate.
Dovettero lasciare sul campo centinaia di vittime e subire i pesanti colpi della repressione (si pensi ai massacri di Melissa o di Portella della Ginestra solo per citare i più gravi) prima di ottenere nel 1950 la riforma agraria (legge stralcio n. 841) che, per quanto venisse fatta dalla Democrazia cristiana (comunisti e socialisti erano stati ricacciati all’opposizione nel 1947), con tutti i suoi limiti era molto più avanzata di quella varata dal comunista Gullo nel ’44.
Una riforma, quella del ’50, che in ogni caso non risolse i problemi fondamentali delle masse contadine. Infatti anche lì dove veniva applicata (e cioè in una parte minima del territorio meridionale), trasformava i braccianti in piccoli e piccolissimi imprenditori che, per quanto formalmente non sottomessi al latifondista, venivano comunque schiacciati dalla concorrenza delle grandi imprese agricole.
Se per certi versi la riforma ebbe il beneficio di consegnare una parte della terra a chi la lavorava, per altri ridusse in maniera notevole la dimensione delle aziende agricole, che solo attraverso un sistema cooperativo e collettivo di produzione, con il sostegno della grande industria (trattori e fertilizzanti) avrebbe potuto imprimere una svolta alla produttività agricola del Sud Italia. La soluzione stava in quel programma di collettivizzazione delle terre e di unità rivoluzionaria con la classe operaia che i dirigenti del Pci rifiutarono di portare avanti nell’immediato dopoguerra.
Fu questa una delle conseguenze più deleterie della svolta di Salerno impressa da Togliatti nell’aprile del 1944, su indicazione di Stalin che a Yalta si era accordato con Churchill e Roosevelt, decidendo che l’Italia doveva rimanere un paese capitalista.
Fu così che dopo vent’anni di fascismo, con la guerra e in assenza di alternative rivoluzionarie, la povertà al Sud continuava a dilagare: “All’inizio degli anni ’50 il reddito procapite del Mezzogiorno si aggirava in media fra il 45 e il 50% di quello del Nord; e il reddito procapite medio italiano, a sua volta, era soltanto il 40% circa di quello della Gran Bretagna. (…) Più della metà della popolazione attiva del Meridione era occupata nell’agricoltura (contro un terzo del Nord); sempre nel 1951, solo 734mila individui, nel Mezzogiorno, erano occupati nell’industria (inclusa l’edilizia) su un totale per l’Italia di quattro milioni e 242mila individui” (Vera Lutz in Sviluppo e sottosviluppo nel Mezzogiorno d’Italia).
Il 1951 era l’anno in cui il divario tra il Nord e il Sud del paese raggiungeva il culmine. La Dc, che temeva nuove esplosioni sociali nel Mezzogiorno d’Italia, decise di usare i soldi del piano Marshall per avanzare politiche di tipo keynesiano. È in questi anni che vi fu anche la ripresa dell’emigrazione in larga scala dal Sud verso il Nord del paese. Negli anni a seguire nascerà la Cassa per il Mezzogiorno, ma soprattutto ci sarà il boom industriale che cambiò la conformazione produttiva e sociale del paese mandando la questione agraria in secondo piano.
Nel 1950 il governo De Gasperi istituì la Cassa del Mezzogiorno, al fine di portare avanti un intervento eco-nomico straordinario al Sud per colmare il divario col resto del paese. Il piano di investimenti straordinario prevedeva tra l’altro interventi infrastrutturali (bonifiche, strade, acquedotti), al fine di rafforzare il settore agricolo e creare le precondizioni per l’industrializzazione. A tale scopo furono introdotti incentivi alle imprese private, prestiti a fondo perduto, la destinazione al Sud del 60% degli investimenti in nuovi impianti per le aziende a partecipazione statale, ecc. Attraverso questo processo nel secondo dopoguerra fu possibile un aumento, seppur parziale, dell’industrializzazione nel Mezzogiorno, non senza alti costi dal punto di vista sociale e ambientale. Il boom economico rese possibile un investimento pubblico senza eguali, che finì in gran parte nelle tasche dei grandi gruppi industriali del Nord. Fu così che, con una logica speculativa e clientelare, nacquero le famose cattedrali nel deserto, veri e propri aborti dal punto di vista infrastrutturale e industriale. Una realtà quindi molto diversa dalla retorica del Sud parassitario mantenuto dai soldi pubblici. Con la fine della Cassa del Mezzogiorno l’intervento per il Sud è rientrato nella legislazione ordinaria, nei primi anni ’90 si provò ancora a favorire con agevolazioni e incentivi ai privati l’industrializzazione nel Meridione ma con risultati minori rispetto ai decenni precedenti.
Ma anche negli anni in cui i finanziamenti erano copiosi si è visto come gli interventi dello Stato, in un sistema capitalista di produzione, sono puri palliativi e si muovono sulla base della logica del massimo profitto e della speculazione, quando non del più gretto clientelismo. Infatti gli investimenti statali al Sud, pur avendo raggiunto livelli elevati negli anni ’50-’70, sono di gran lunga meno consistenti di quelli operanti al Nord. Ciò non a caso: la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instaura tra due realtà estranee o anche solo genericamente collegate, ma presuppone uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è congeniale. Qualcosa di simile a quello che oggi avviene nell’Ue tra i paesi del nord (Germania su tutti) e quelli del sud Europa.

Un programma per il Mezzogiorno

Il dato eclatante per l’oggi è l’assoluta mancanza di strategia da parte della classe dominante. Renzi ha spacciato come Piano per il Sud i patti che ha firmato con i comuni e le regioni del Mezzogiorno a cui assegnava fondi già stanziati. I più audaci si spingono a proporre per il Sud l’istituzione di zone economiche speciali (zone franche, sottoposte a leggi speciali volte ad attrarre gli investimenti esteri), utilizzando come esempio quanto av-venuto in Polonia e in Cina.
Dal nostro punto di vista, invece, si tratta di riprendere un ragionamento sulla crisi del capitalismo italiano e della sua specificità meridionale, provando a delineare una proposta in grado di fornire delle parole d’ordine chiare e un programma all’altezza della fase. Se il divario tra il Nord e il Sud è un dato strutturale del capitalismo italiano per come si è venuto a configurare storicamente, negli ultimi dieci anni e in particolare nella recente crisi economica, il distacco tra le due aree del paese è aumentato significativamente.
Quelli che appaiono come semplici dati quantitativi dimostrano chiaramente che a più di 150 anni dall’unità d’Italia, il divario tra Nord e Sud non è stato superato. Il motivo è dovuto alle caratteristiche stesse del capitalismo italiano e al suo ritardo rispetto alla storia di altri paesi europei.Se dal punto di vista capitalistico questo dualismo è necessario, lo stesso non si può dire per chi è costretto a subirne le conseguenze, spesso drammatiche. Proprio per questo solo con un’alternativa rivoluzionaria che parta dagli interessi dei lavoratori, dei giovani e dei disoccupati, sarà possibile ridare una prospettiva ad un territorio oggi privo di un futuro degno. Veniamo da un periodo in cui le compatibilità col sistema e una logica governista hanno reso le organizzazioni della sinistra, quelle politiche e sindacali, corresponsabili dello sfacelo del Sud. È necessario che si abbandoni una fraseologia generica e si facciano proposte precise su cui riannodare il filo spezzato del dibattito sul Mezzogiorno.
Ci limitiamo a quelle che consideriamo prioritarie. Se è giusto individuare il centro della questione nella crisi industriale (non siamo tra quelli che pensano che il Sud possa vivere semplicemente di turismo), è da lì che bisogna partire, lottando per la difesa di tutti i posti di lavoro, attraverso il blocco dei licenziamenti e per la nazionalizzazione sotto il controllo operaio di tutte le aziende che delocalizzano. Se il lavoro che c’è è poco, si distribuisca tra tutti attraverso la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Va rivendicata l’abolizione di ogni forma di incentivi alle imprese e un piano di investimenti pubblici volto al potenziamento dell’industria al Sud in settori strategici della produzione e dei servizi. Contro ogni forma di gabbie salariali e di discriminazione dei lavoratori del Mezzogiorno occorre lottare per uguali condizioni di lavoro e di salario su tutto il territorio nazionale. Allo stesso modo occorre riprendere la parola d’ordine del salario garantito per i disoccupati e gli inoccupati, non solo per il diritto sacrosanto di tutti a sopravvivere, ma anche per evitare ogni forma di ricatto al ribasso e contrastare la precarietà e il lavoro nero, cosa che va fatta anche attraverso il controllo dei registri contabili e la modifica del sistema degli appalti nelle pubbliche amministrazioni.
Contro la logica del profitto che caratterizza le stesse aziende pubbliche e che le spinge a investire nei territori più profittevoli, lottiamo per un piano di investimenti pubblici in infrastrutture, strade, ferrovie, scuole e ospedali e per il potenziamento del trasporto pubblico, così come per la bonifica immediata di tutti i territori e le acque inquinati da rifiuti tossici, aree industriali dismesse, ecc. E più in generale per la tutela del territorio, contro la cementificazione e l’abusivismo edilizio: abbattimento immediato degli ecomostri e riqualificazione delle aree degradate, per un piano di riassetto idrogeologico e un piano energetico che valorizzi le energie rinnovabili e le potenzialità del Sud in questa direzione.
L’unico modo per lottare seriamente contro la criminalità organizzata, che in questa crisi cresce e si rafforza, è colpire gli interessi economici di mafia, camorra e ’ndrangheta, e proprio per questo è necessario rivendicare l’esproprio senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori delle aziende legate alla criminalità organizzata e la confisca dei beni da riutilizzare per la pubblica utilità. La lotta alla mafia è prima di tutto una lotta da effettuare sul terreno economico, e solo successivamente su quello culturale.
Occorre garantire ai Comuni una spesa adeguata nei servizi di assistenza e in politiche sociali, a partire dalla reinternalizzazione dei servizi, il che significa mettere in discussione il patto di stabilità e rifiutare il pareggio di bilancio a livello locale come a livello nazionale. A chi ci chiede chi potrebbe mai portare avanti questo programma rispondiamo che può farlo solo un’organizzazione che si ponga un obiettivo decisivo, quello della conquista del potere e delle leve fondamentali dell’economia, rompendo le compatibilità che il capitalismo impone, in questa fase più che mai.
C’è la necessità di condurre una battaglia senza ambiguità per l’unità delle lotte sul territorio nazionale, non solo sul piano materiale ma anche su quello delle idee. Dalla Cassa del Mezzogiorno fino all’utilizzo dei fondi europei, passando per i più volte utilizzati incentivi alle imprese, i risultati ottenuti sono stati al di sotto delle aspettative. Ogni strumento utilizzato non è servito ad altro che a dare possibilità di profitto per le imprese, specie dei grandi gruppi industriali, salvo poi far pagare la crisi ai lavoratori con peggiori salari, peggiori condizioni di lavoro e disoccupazione.
Siamo lontani anni luce dall’illusione togliattiana, di un capitalismo che armoniosamente e gradualmente possa ridurre le diseguaglianze tra Nord e Sud. La crisi del sistema capitalistico, a differenza dei decenni passati, rende impossibile anche la redistribuzione delle briciole, volta a contenere il malessere sociale.
C’è, soprattutto tra le giovani generazioni, una riscoperta delle tradizioni di lotta del Sud, è una reazione sacrosanta dopo anni di diffusione di luoghi comuni razzisti. Di fronte allo scenario prodotto dalla crisi però, non ce la si può cavare con semplici appelli ribellistici o ancora peggio aderendo a tesi neoborboniche che esaltano acriticamente la storia del Sud preunitario. Non sono mancate nel Mezzogiorno, grandi esplosioni rivoluzionarie che hanno dimostrato a più riprese la voglia di riscatto delle masse meridionali. È da lì che dobbiamo partire per ricostruire una sinistra di classe che spezzi le catene del capitalismo, mettendo fine a quel sottosviluppo che per troppo tempo ha martoriato queste terre meravigliose.

Note

    1. Tra le innumerevoli offese rivolte dai leader leghisti contro i meridionali ci limitiamo a ricordare le più recenti: nel 2009 alla Festa di Pontida, Matteo Salvini intona questo tristemente celebre coro da stadio: “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. In seguito lo stesso Salvini precisa: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, dallo stile di vita e dalla mentalità del Nord. Non abbiamo nessuna cosa in comune. Siamo lontani anni luce”. Nel 2011 in merito al terremoto a L’Aquila, l’europarlamentare Mario Borghezio, dichiara: “Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. Il comportamento di molte zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate”.Nell’ottobre 2012 ancora Salvini in Piazza della Scala a Milano annuncia alcuni referendum proposti dalla Lega e dichiara: “L’euro al Sud non se lo meritano. La Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta. L’euro non se lo può permettere”. Se oggi Salvini si dichiara acerrimo nemico dell’euro, poco tempo fa non la pensava allo stesso modo. E il Sud, a suo dire, l’euro non lo meritava. Nel novembre 2012. Donatella Galli, consigliera leghista della provincia di Monza e Brianza, invoca l’aiuto dei vulcani per pulire il Sud: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”. Nel 2013 al congresso dei giovani padani, Matteo Salvini nella sua raffinata relazione dirà: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno!Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”. Nel 2014, riguardo ad una possibile riforma della scuola, il solito Salvini dichiara: “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”. Leonardo Muraro, presidente leghista della provincia di Treviso aggiungerà: “È proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe”. E ancora, un’altra storica “perla” salviniana: “Carrozze metro solo per milanesi”. Solo nel dicembre 2014 quando Salvini deciderà di lanciare a Roma e al Sud il movimento Noi con Salvini i toni cominceranno a cambiare: “Restiamo indipendentisti e continuiamo a puntare sul federalismo”. Poi però puntualizza: “Ma non abbiamo mai attaccato i cittadini del Sud. Quando dicevamo Roma Ladrona, non ce l’avevamo con i romani. Gli sprechi in Sicilia? Non sono colpa dei siciliani, ma di chi amministra quella regione”. Ma i meridionali certo non dimenticano gli insulti che da circa trent’anni gli arrivano dai leghisti ed è così che alle elezioni amministrative le liste Noi con Salvini, faranno un tonfo nell’acqua.2. Renzi: “Ci sono due Italia: una che ci prova e una che si
    2. lamenta solo. Certo c’è tanto da cambiare al Sud come al Nord, ci sono tanti problemi ma c’è tanto che funziona. E a me pagano per provarci”.Sulla stessa linea Massimo Cacciari: “L’evasione resta solo al Sud, ecco come si frena il treno del Nord”, pubblicata dal Corriere del Mezzogiorno(28 dicembre 2013).
    3. Maria Stella Gelmini quando era Ministra dell’istruzione del governo Berlusconi ebbe modo di dire che: “Nel Sud alcune scuole abbassano la qualità della scuola italiana. In Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata organizzeremo corsi intensivi per gli insegnanti”. Disse questo rispondendo a Bossi che al congresso della Liga Veneta a Padova si era lamentato che era l’ora di finirla di far “martoriare i nostri figli da gente che non viene dal Nord”, Brunetta che da Ministro della funzione pubblica si è caratterizzato per numerosi attacchi contro il Sud nel settembre del 2010 ebbe modo di dichiarare che: “Se non avessimo la Calabria, la conurbazione Napoli-Caserta, l’Italia sarebbe il primo paese in Europa”.
    4. In Alcuni temi della quistione meridionale di Antonio Gramsci.
    5. “Le famiglie più tartassate d’Italia abitano a Reggio Calabria. Nel 2015 il peso complessivo di Irpef, addizionali comunali e regionali all’Irpef, Tasi, bollo auto e Tari ammonta a 7.684 euro. Al secondo posto di questa graduatoria troviamo Napoli: nel capoluogo campano le tasse che gravano su una famiglia media pesano 7.658 euro. Il terzo posto è occupato da Salerno: lo sforzo fiscale richiesto alle famiglie residenti in questa città è di 7.648 euro. Ai piedi del podio si collocano Messina (7.590 euro), Roma (7.588 euro), Siracusa (7.555 euro), Catania (7.547 euro) e Latina (7.540 euro). La prima città del Nord è Genova che si “piazza” al tredicesimo posto, con 7.405 euro. Le città meno tartassate, invece, si trovano a Nordest: nelle ultime 6 posizioni ben 4 sono occupate da Comuni veneti e friulani: Verona (7.061 euro), Vicenza (6.986 euro), Padova (6.929 euro) e Udine (6.901 euro)”. Vedi http://www.cgiamestre.com/articoli/23770.
    6. Per il dettaglio dei dati si veda il Rapporto Svimez 2015 sull’Economia del Mezzogiorno, il Mulino.

 

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