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La palude elettorale e la tempesta che si avvicina

L’editoriale del nuovo numero di Rivoluzione

Le elezioni del 25 settembre dovrebbero in astratto suscitare una grande attenzione. Sono chiamate a risolvere una crisi parlamentare che, per la prima volta nella storia repubblicana, ha portato a un voto in autunno e decideranno il governo che dovrà affrontare un tracollo economico di portata storica.

Invece, saranno le elezioni con la più bassa affluenza della storia repubblicana. Secondo un recente sondaggio, un italiano su tre non sta seguendo “per nulla” la campagna elettorale. La segue poco il 18%, in parte il 27% e solo il 22% la segue molto. Il 29% dichiara, come ovvio, che da qui alle elezioni il proprio interesse aumenterà, ma il 20% dichiara addirittura che diminuirà ulteriormente. Fra i giovani i sondaggi prevedono una astensione del 55%.

Questi dati non vanno confusi con un disinteresse per la politica in senso ampio. Al contrario, oggi è quasi impossibile fare una conversazione senza finire a parlare di inflazione o guerra, della corsa a ostacoli per superare i disservizi di scuola e sanità, delle preoccupazioni per il lavoro. La percezione della crisi profonda del sistema in cui viviamo è radicata a livello di massa, insieme all’inquietudine per il futuro e questo genera una discussione di massa, continua, su temi economici e politici.

Piuttosto, si è diffusa la consapevolezza che le attuali istituzioni politiche non sono in grado di risolvere questi problemi, e quindi si è prodotto un distacco profondo dalla politica istituzionale, vista come un teatrino dove un personale politico privilegiato dice tutto e il contrario di tutto, pronto a cambiare casacca dalla sera alla mattina con il solo intento di preservare le proprie carriere personali al servizio della classe dominante.

È un sentimento che è andato accumulandosi nel tempo, rafforzandosi di crisi in crisi, di delusione in delusione. Le elezioni politiche del 2018 sono state l’ultima occasione in cui le masse hanno usato lo strumento elettorale per punire questa classe politica restando sul terreno della democrazia parlamentare, con la cascata di voti per il Movimento 5 Stelle (e in misura minore per la Lega). Nei quattro anni successivi come sappiamo è stato piuttosto il sistema politico a fagocitare il M5S, in un salutare processo chiarificatorio. Così oggi quello stesso sentimento si ripresenta davanti alla nuova scadenza elettorale, approfondito dagli sconvolgimenti di questi anni (pandemia, guerra, inflazione) e orfano di una opzione interna al sistema elettorale che susciti una reale speranza di cambiamento.

Sondaggi e risultati elettorali vanno letti in questo contesto. Lo scontato successo della coalizione di destra, e in particolare di Fratelli d’Italia, non rappresenta una svolta reazionaria della popolazione italiana, ma uno spostamento elettorale verso l’unica opzione che è rimasta visibilmente all’opposizione degli ultimi governi, in un’epoca in cui chiunque governi secondo le regole del sistema capitalista non può che chiedere sacrifici ai lavoratori e dunque perdere rapidamente consensi.

 

La palude elettorale

Come abbiamo avuto modo di scrivere a luglio, la crisi del governo Draghi si è manifestata sul terreno parlamentare, ma è maturata giorno dopo giorno nella vita sempre più dura di decine di milioni di lavoratori, giovani e pensionati.

Al di là degli sforzi della stampa borghese per dipingere una diffusa nostalgia verso il magnifico Draghi, le forze che ne rivendicano più apertamente l’eredità raccolgono un consenso molto limitato. L’idea di un grande centro draghiano che dia stabilità si è ridotto a una coalizione fra Calenda e Renzi, che paradossalmente puntano piuttosto sulla instabilità istituzionale perché il loro ridotto appoggio risulti imprescindibile per una nuova, ennesima manovra di palazzo. Due personaggi che nello sbracciarsi come diretti rappresentanti della borghesia trasudano disprezzo di classe e snobismo, da Renzi che riesce a spendersi a difesa della “libertà di avere dei jet privati” a Calenda che convoca una mobilitazione “per le infrastrutture” che è una provocazione aperta alle popolazioni di Acerra, Piombino, Val Susa ecc.

Il Partito Democratico cerca la solita quadratura del cerchio, rivendica Draghi ma chiede il consenso dei lavoratori, governa ancora in questi giorni con la Lega ma chiede i voti come argine alla destra. Non sorprende che sia visto con distacco dalle classi popolari. Con la scelta di entrare in coalizione, Sinistra Italiana sacrifica l’opposizione al governo Draghi e si subordina ancora una volta al PD.

La mancanza di una alternativa credibile a sinistra, che rappresenti gli interessi di giovani e lavoratori e provi a organizzarli per una riscossa di classe, è bruciante per il livello di scontro di classe che si prepara. Unione Popolare, a cui pure daremo il voto perché riteniamo corretto sostenere l’unica opzione che si colloca nel campo della classe lavoratrice e in forma indipendente dalle forze che hanno sostenuto il governo Draghi, ripropone tutti i limiti che hanno portato al crollo del riformismo di sinistra in Italia, dall’idea sempre smentita dalla realtà di poter difendere gli interesse di classe dentro le compatibilità del sistema capitalista a un orizzonte di corto respiro in cui il movimento reale, quando viene preso in considerazione, è sempre subordinato a effimere operazioni elettoralistiche.

Paradossalmente sarà piuttosto il Movimento 5 Stelle a raccogliere un voto più consistente da parte di un elettorato popolare che vuole difendere il reddito di cittadinanza dagli attacchi della destra (3,9 milioni di persone ne beneficiano oggi). Dato il vuoto a sinistra, Conte ha compreso che solo con un profilo del genere poteva preservare una base elettorale per il M5S e, cosa che gli sta più a cuore, il proprio ruolo personale. Parliamo tuttavia di una ricollocazione puramente elettorale e sempre sulla base di una impostazione interclassista, incapace di risolvere il problema di rappresentanza della classe lavoratrice.

 

La tempesta si avvicina

Se le elezioni fossero tutto ciò che conta, lo scenario sarebbe disarmante. E infatti disarmate e demoralizzate sono tutte quelle forze politiche a sinistra che limitano la propria analisi e la propria azione alla dimensione elettorale. Tuttavia, è vero precisamente il contrario. Il terreno elettorale è solo uno dei terreni su cui si esprime la lotta di classe, e neppure il principale. Nella misura in cui le masse vedono la possibilità di cambiare le proprie condizioni di vita con un cambiamento elettorale, lo useranno. Ma se questa opzione è preclusa, saranno obbligate a trovare un’altra via.

La situazione economica verso cui ci dirigiamo è catastrofica. Il taglio delle forniture energetiche avrà conseguenze drammatiche sulle condizioni di vita di milioni di lavoratori. Il presidente di Confindustria Bonomi ha dichiarato che una sospensione del gas metterebbe a rischio di chiusura il 20% delle industrie italiane. A queste si sommano 120mila aziende del terziario. Ai problemi di fornitura si somma il fatto che con i prezzi troppo alti, molte aziende stanno valutando se è profittevole continuare a produrre. In settori come acciaio, vetro o ceramiche spegnere i forni ha conseguenze di lungo periodo, perché compromette tutto il processo produttivo. Questi numeri si traducono per la classe lavoratrice nel dilagare di cassa integrazione e licenziamenti. Solo nella camera del lavoro di Modena, ancora ad agosto, erano arrivate già mille richieste di cassa integrazione. Tutto questo mentre l’inflazione accelera ancora. La spesa per le famiglie è cresciuta del 9,4% a luglio su base annua. In parole povere, diventa impossibile arrivare a fine mese.

Forum Ambrosetti: tutti ai piedi di Confindustria

Si aggiunga che il debito pubblico al 152%, con l’aumento dei tassi di interesse della BCE, impone un ritorno a misure di austerità, e saranno quindi tagliati sussidi che, pur limitati, hanno giocato un ruolo per preservare la stabilità sociale.

Ora, invece di strapparsi i capelli per la prossima vittoria della Meloni, dobbiamo chiederci: quale sarà l’effetto di un governo di destra in una situazione economica e sociale del genere?

Il programma della coalizione di destra è molto chiaro: spostamento delle ricchezze ancor più verso le fasce privilegiate della società, attacco al reddito di cittadinanza, attacco ai diritti sindacali, ulteriore precarizzazione del lavoro, tagli a scuola e sanità pubbliche a favore di quelle private. Tutto questo accompagnato da provocazioni reazionarie di ogni genere: razzismo, sessismo, omofobia, nucleare, repressione poliziesca. È una combinazione di fattori economici e politici che rende inevitabile una esplosione sociale senza precedenti da decenni nel nostro paese.

Bloccati sul terreno elettorale, i lavoratori saranno costretti a scendere sul terreno della mobilitazione diretta per difendere le proprie condizioni di vita. L’ondata di scioperi che vediamo in Gran Bretagna oggi è un’anticipazione di quello che vedremo in Italia domani. Esplosioni di massa dei giovani contro le provocazioni reazionarie su temi che hanno già mobilitato in questi anni sono implicite nella situazione.

Un esempio di queste lotte è dato in questi giorni dai lavoratori della Wartsila e dai portuali di Trieste, in lotta contro lo spostamento della produzione, a cui si sono affiancate 15mila persone nella manifestazione del 3 settembre. È indicativo che nello stesso porto in cui solo dieci mesi fa la battaglia sul tema del green pass fu egemonizzata da elementi reazionari, oggi i lavoratori scendono in lotta sul più classico terreno della lotta di classe, e divengono un punto di riferimento per settori più ampi, che sanno che dovranno fare lo stesso nei prossimi mesi.

In una situazione di tale gravità non ci sono parole per commentare la diserzione del gruppo dirigente della CGIL, che in un rifiuto della realtà ancora chiede tavoli di trattativa… al governo dimissionario di Draghi. Tuttavia questo non potrà fermare la mobilitazione dei lavoratori. La classe operaia italiana ha una lunga storia di esplosioni di lotta spontanee che dovettero superare le resistenze delle direzioni sindacali. I freni posti dall’alto possono funzionare solo finché la pressione esercitata dalle condizioni oggettive resta entro certi limiti. Questi limiti, dove non sono stati ancora superati, lo saranno nei prossimi mesi.

Per un certo periodo, anche protratto, i lavoratori possono sopportare sacrifici aggrappati alla speranza di un ritorno alla vecchia normalità. Ma questa speranza viene continuamente spezzata, colpo dopo colpo, dalle diverse manifestazioni concrete della crisi generale del capitalismo. L’opulenza che si accumula ai vertici della società, mai così sfacciata, è un’ulteriore provocazione, tanto che persino il governo ha dovuto denunciare i cosiddetti “extraprofitti”. Arriva un punto in cui i lavoratori dicono “ora basta”.

Al gran galà della borghesia che si riunisce annualmente a Cernobbio tutti i principali capi di partito sono andati a promettere la propria fedeltà, e la platea ha tributato gli omaggi del caso alla Meloni. Tuttavia gli elementi più lungimiranti della classe dominante guardano con preoccupazione al futuro. La caduta di Draghi è stata per loro una prova di impotenza; le politiche a difesa dei profitti hanno distrutto la stabilità politica; il discredito delle direzioni del movimento operaio li priva di chi possa controllare esplosioni di lotta di classe spontanee.

La frustrazione, la mancanza di un riferimento, la cupa preoccupazione per il futuro, il distacco dalla politica istituzionale si trasformeranno nel loro opposto, nella affermazione della lotta collettiva e diretta per agire sulla realtà. La palude sarà spazzata via dall’entrata in scena dei giovani e dei lavoratori.

Resta tuttavia una fondamentale mancanza: perché queste lotte riescano a rovesciare non un governo, cosa in fondo relativamente semplice, ma l’intero sistema di sfruttamento in cui viviamo, serve una direzione rivoluzionaria. Gli avvenimenti recenti in Sri Lanka devono essere studiati e compresi in questo senso. Ogni fabbrica che minaccia la chiusura deve essere nazionalizzata e fatta funzionare sotto il controllo dei lavoratori per garantire lavoro e produrre secondo le necessità sociali. Lo stesso vale per i settori strategici dove si sono accumulati profitti miliardari, a partire dal settore energetico e dalle banche. In definitiva, è necessario che la società sia gestita direttamente dai lavoratori e non più dalla parassitaria classe dominante che ci ha trascinati nel baratro. L’appello che facciamo a tutti coloro che condividono questa prospettiva è di unirsi a noi per fare in modo che essa si affermi nella fase di aspra lotta di classe che ci si apre davanti.

6 settembre 2022

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