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28 Dicembre 2015La Camera del Lavoro di Reggio Emilia è stata attraversata di recente da un terremoto. Si è consumata una rottura tra le componenti di maggioranza e minoranza, che ha avuto importanti effetti sul piano organizzativo ma le cui origini e conseguenze politiche non sono state chiare ed esplicite. E’ quindi necessaria una ricostruzione e un’analisi degli eventi.
La Camera del Lavoro di Reggio Emilia è, nel panorama sindacale italiano, storicamente di sinistra. Per intenderci, quella di Reggio è una delle due Camere del Lavoro (l’altra è Brescia) dove nel congresso del 2010 ha vinto la mozione di Gianni Rinaldini, in contrapposizione a quella dell’allora segretario generale Guglielmo Epifani. Questo suo carattere è da ricondurre in gran parte al fatto che la sua categoria più rappresentativa tra i lavoratori attivi è la FIOM, in una provincia in cui un abitante su cinque ha in tasca la tessera del sindacato, tanto che proprio dalla FIOM di Reggio vengono gli ultimi due segretari nazionali della categoria, Gianni Rinaldini, appunto, e Maurizio Landini. Questo vuol dire che a Reggio governa chi a livello nazionale (o anche regionale) fa riferimento a questi compagni, mentre è minoranza chi fa riferimento alla Camusso. La Camera del Lavoro è però sempre stata governata negli ultimi anni tramite un patto unitario, che teneva insieme maggioranza e minoranza, entrambe quindi sempre presenti nella segreteria provinciale. Cosa resa possibile dal fatto che, in periodi di maggiore tranquillità economica, tutte le contraddizioni politiche potevano essere nascoste sotto il tappeto e nella pratica entrambe le componenti potevano agire insieme, non distinguendosi particolarmente nei modi e nei metodi. Ma al direttivo di Luglio il patto unitario è finito e, nel giro pochi mesi, la rottura è stata sancita con un rimpasto della segreteria che adesso è di quattro elementi, tutti di sinistra. Il casus belli di questa rottura è stato il rifiuto da parte di una funzionaria della FILLEA (di minoranza) di cambiare categoria a seguito della scadenza del mandato. Questo avrebbe fatto venire meno la fiducia tra il segretario provinciale Guido Mora, e l’organizzatore, Luca Chiesi, anch’egli della minoranza. Una giustificazione del tutto organizzativa a una rottura che però è evidentemente politica. Per i compagni della maggioranza questo è stato un tentativo per mettere il segretario provinciale alle strette e dargli una spallata, costringendolo a dimettersi. Il che è sicuramente vero. Infatti da quando è stato eletto, Mora è stato costantemente attaccato dalla minoranza, ogni volta che ne hanno avuto occasione. Questo perchè il segretario ha in effetti un difetto, che è quello di dire sempre ciò che pensa, anche quando si tratta di criticare la Camusso e il gruppo dirigente nazionale. Un difetto decisamente apprezzabile, in un’epoca dominata da opportunisti e voltagabbana di ogni risma, e che comprensibilmente da fastidio a chi vuole mantenere lo status quo. Ma questa non è una spiegazione sufficiente, appunto perchè le ostilità verso Mora non sono nuove e non bastano a spiegare una svolta epocale e la fine di una gestione unitaria che la minoranza aveva tutto l’interesse a far continuare, visto che nella pratica non c’erano differenze vistose e entrambe le componenti agivano di concerto. La verità è un’altra. La rottura era inevitabile, si sarebbe prodotta comunque, indipendentemente dai soggetti coinvolti, Mora o non Mora, FILLEA o non FILLEA. Questo perchè le contraddizioni che giacevano sotto la superficie continuavano e continuano a intensificarsi, la situazione è sempre più intollerabile per tutti, lavoratori e funzionari. Basta guardare all’immobilismo del sindacato, a tutti i passi indietro, alle lotte abbandonate e agli effetti che questo ha avuto sulla credibilità della CGIL tra i lavoratori. Una perdita di credibilità che per l’apparato è diventata via via sempre più insostenibile, sia per chi da sempre è critico delle scelte politiche fatte dalla segreteria nazionale, sia per quel settore storicamente più legato al PD e che male ha digerito la rottura prodotta dal Jobs Act. La crisi di credibilità della CGIL, lo scontro con il governo, i tagli dei finanziamenti pubblici al patronato e al Caf, hanno polarizzato le idee e le prospettive su come uscirne, e il patto unitario è diventato come un tappo su di un vulcano pieno di insofferenza. Presto o tardi, tutta questa frustrazione, insieme alla pressione passiva dei lavoratori, lo avrebbe avrebbe fatto saltare. Non aver avuto il coraggio e la determinazione di produrre quindi la rottura consciamente, apertamente, sul piano politico (le occasioni non sono mancate, dalla lotta mai fatta contro la legge Fornero all’abbandono della lotta contro il Jobs Act) ha fatto si che la rottura si producesse sul piano organizzativo. La frustrazione che montava sotto il tappo del patto unitario doveva trovare una strada per uscire ed esprimersi e non avendola trovata in una direzione chiara e limpida, quella politica e razionale, si è espressa sul piano più basso e immediato, che è anche però il più torbido, quello personale e organizzativo. Cosa che ha fatto si che tutta la dinamica della rottura sia stata oscura e incomprensibile per chiunque non ci fosse dentro, cioè per la maggioranza dei delegati e per tutti gli iscritti. Solo delle argomentazioni politiche, razionali, possono essere chiare e limpide, e quindi comprensibili a tutti, anche a chi non vive dentro le logiche del palazzo. Bisognava, e bisogna, spiegare ai lavoratori che la situazione è insostenibile, che l’immobilismo del sindacato è inaccettabile a fronte degli attacchi che la classe lavoratrice subisce, che bisogna agire con urgenza per imprimere un cambiamento nella direzione e quindi nel gruppo dirigente, che per farlo è necessario il protagonismo dei lavoratori tutti, che devono riprendersi indietro il sindacato come proprio strumento di lotta e rivendicazione. Solo questo avrebbe potuto, e potrebbe, produrre una svolta a sinistra vera, positiva, ma soprattuto viva e pulsante, in grado di generare entusiasmo, capace di mettere in discussione i totem intoccabili della nostra provincia (le cooperative, le amministrazioni del PD), di mettere in pratica metodi di lotta radicali e finalmente efficaci, che tutti sappiamo quanto sono necessari, anche nell’insospettabile Reggio Emilia, dove basta alzare un poco il tappeto per trovare situazioni di lavoro intollerabili (qualcuno ricorda la GFE?), e capace infine di mettere la Camera del Lavoro di Reggio Emilia alla testa di un movimento più ampio per cambiare il sindacato. Senza questo, la rottura ha prodotto si una svolta a sinistra, ma che resta sulla carta e rischia fortemente di tradursi in un nulla di fatto in poco tempo. Una dinamica che rischia di riprodursi in modo simile anche a livello nazionale, nello scontro tra Landini e la Camusso, oggi sopito ma che presto o tardi dovrà tornare ad esplodere. E anche qua, se non si avrà il coraggio di farlo esplodere per tempo sul piano politico, con un programma chiaro e coinvolgendo i lavoratori dentro e fuori la struttura sindacale, il risultato non potrà che essere di una battaglia tutta interna all’apparato e quindi in una sconfitta, essendo i rapporti di forza diametralmente opposti a quelli che si esprimono a Reggio Emilia.