Trieste, 3 novembre – Per un antifascismo di classe e internazionalista
3 Novembre 2018Milano – La scuola borghese offre corsi di sopravvivenza: in classe coi secchi.
6 Novembre 2018Un anno fa, il presidente della Repubblica Mattarella apriva con queste parole le celebrazioni per la festa dell’unità nazionale e delle forze armate: “In questo giorno, in cui ricordiamo l’unità d’Italia e rendiamo onore alle Forze Armate, rivolgo il mio pensiero commosso a tutti coloro che si sono sacrificati sull’Altare della Patria e della nostra libertà per l’edificazione di uno Stato democratico e unito”. Nel 2018 lo spartito non cambierà. Istituita nel 1919 per celebrare la vittoria militare dell’Italia nella prima guerra mondiale, la festa nazionale del 4 novembre è sempre stata utilizzata per promuovere nazionalismo e bellicismo tra le masse, strumentalizzando il ricordo dei 600mila soldati morti.
Per parte nostra, riteniamo che le ragioni di fondo di quella guerra e le sue conseguenze, gli scopi specifici della partecipazione italiana, l’atteggiamento del padronato e la reazione dei lavoratori e dei contadini che vennero mandati a combatterla siano da sempre oggetto di mistificazione e che sia necessario dissipare la coltre patriottarda che avvolge le celebrazioni di oggi, pure quando assumono i toni mielosi e ipocriti delle “caserme aperte” o del video promosso dal ministro della Difesa.
Chi volle la prima guerra mondiale?
La propaganda istituzionale si è a lungo compiaciuta nel definire la prima guerra mondiale come completamento del Risorgimento, in ragione del passaggio di Trento e Trieste al Regno d’Italia. Quel punto di vista rimuove un’analisi generale del conflitto e nasconde la natura e l’estensione delle annessioni sancite dal Trattato di pace di Versailles del 1919.
In generale, la prima guerra mondiale fu il “macello imperialista” di cui scrisse Lenin. La crescita esponenziale del capitalismo tedesco dall’ultimo quarto del XIX secolo lo spinse a ricercare una nuova spartizione del mondo – mercati e materie prime – a danno, principalmente, degli imperialismi britannico e francese fino ad allora dominanti ma in relativo declino. Tale fu il nodo sul quale si innestò una complessa catena di conflitti, a partire dai Balcani, dove gli appetiti nazionalisti furono manipolati l’un contro l’altro dalle grandi potenze per perseguire i propri interessi.
Malgrado fosse una potenza imperialista secondaria, la borghesia italiana partecipò alla guerra in nome del profitto e dell’espansione coloniale. Le ragioni fornite dalla propaganda ufficiale si riferivano invece a grandi ideali di democrazia, come la lotta contro l’autoritarismo del Kaiser, e al completamento dei moti risorgimentali. Nei fatti, la guerra si rivelò una manna per la grande borghesia. Grazie all’esplosione delle commesse statali, il capitale dell’Ilva passò da 30 a 300 milioni, quello della Breda da 14 a 110 milioni, quello dell’Ansaldo da 30 a 500 milioni. Quello della Fiat, impegnata nella produzione di mezzi di trasporto, motori, mitragliatrici e esplosivi, passò da 17 a 200 milioni di lire , mentre il suo fondo di riserva si impennò da 1,5 a 92 milioni. I profitti medi dichiarati dalle società anonime, pari al 4 per cento circa alla vigilia del conflitto, balzarono nel 1917 all’8 per cento e, in un settore direttamente impegnato nella produzione bellica come l’automobile, addirittura il 31%. La guerra accelerò la formazione di grandi gruppi monopolisti e la compenetrazione tra industria e banche. Il governo italiano servì questo processo di centralizzazione del grande capitale istituendo la Mobilitazione Industriale, che sottoponeva alla giurisdizione militare gli stabilimenti connessi alla produzione bellica, detti ausiliari. Con fabbriche militarizzate, il diritto allo sciopero era nei fatti sospeso. La durata minima della giornata lavorativa era di 10 ore.
La guerra e il movimento socialista
L’Internazionale socialista s’era impegnata, fino al congresso del 1912, ad impedire lo scoppio d’una guerra mondiale coi mezzi dello sciopero generale e dell’insurrezione di massa. Alla prova dei fatti, tuttavia, prima la socialdemocrazia tedesca e, di seguito, il partito socialista francese capitolarono di fronte alla propria borghesia, votarono i crediti di guerra e s’impegnarono a congelare la lotta di classe in nome dell’unità nazionale.
L’Internazionale crollò in pezzi e nel disonore. Sparute minoranze, assieme ai socialisti russi, serbi e a quelli del Partito socialista italiano (Psi), mantennero un’opposizione alla guerra imperialista. Da quelle forze nacque l’iniziativa di convocare nella neutrale Svizzera conferenze dei socialisti contrari alla guerra. I bolscevichi russi di Lenin formarono la “sinistra di Zimmerwald” sulla prospettiva di trasformare la guerra imperialista in guerra civile tra le classi. Il Psi tenne una posizione più sfumata ed esitante, condensata nel motto “Né aderire, né sabotare”. Tale formula di compromesso tratteneva l’ala riformista dal piegarsi apertamente al governo e quella massimalista dall’impegnarsi a definire una strategia per rovesciare la guerra con la rivoluzione. All’estrema sinistra del Psi emerse la Frazione intransigente, dominata dalla figura di Amadeo Bordiga. Quel raggruppamento, poco organizzato durante la guerra, costituì un terreno decisivo per la nascita del Partito comunista d’Italia.
La rivoluzione russa smaschera i trattati segreti
“La diplomazia segreta è un’arma indispensabile nelle mani di una minoranza possidente, obbligata a ingannare la maggioranza del popolo per fargli servire i suoi interessi” (L. Trotskij, Izvestjia, 28 novembre 1917).
Sulle reali ragioni del conflitto, i bolscevichi non si limitarono a produrre chiarezza teorica. Dopo la rivoluzione dell’ottobre 1917, infatti, quando Trotskij penetrò negli uffici dell’ex ministero degli Esteri assieme a marinai bolscevichi, trovò gli archivi della diplomazia segreta condotta dalle potenze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia e Italia). Nelle settimane successive, corredati da una breve introduzione scritta da Trotskij stesso, i documenti ritenuti più importanti vennero pubblicati dall’Izvestija, il giornale del governo sovietico, e dalla Pravda, quotidiano del Partito comunista russo (bolscevico). Quanto all’Italia, quei testi resero pubblico il Trattato di Londra, firmato dal governo di Roma il 26 aprile 1915. In quel trattato, l’Italia si impegnava ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa che, in caso di vittoria, s’impegnava a concedere all’Italia Trentino, Tirolo meridionale, Trieste, la provincia di Gorizia e Gradisca e tutta l’Istria (articolo 4), parte della Dalmazia e le isole dell’Adriatico (articolo 5), Valona (articolo 7), oltre a compensazioni territoriali in Africa in cambio della rinuncia alle riparazioni di guerra.
L’Italia, così, poté annettere il territorio tirolese, soggetto al regno asburgico sin dal XIV secolo e tedescofono, e zone dove la popolazione italofona era minoranza, come l’Istria (38%) e la zona di Gorizia (36%); quanto alla Dalmazia, dove gli italofoni non raggiungevano il 3%, il governo italiano fece della retorica sull’“eredità” di Venezia. Queste annessioni, dunque, furono realizzate in spregio al principio di autodeterminazione dei popoli promesso dai 14 punti del presidente statunitense Wilson ma messo sotto i piedi alla conferenza di Versailles. La successiva italianizzazione forzata delle popolazioni di lingua tedesca e slava di quei territori, dunque, ha un’origine precisa nella volontà dell’imperialismo italiano di espandere la propria influenza, in particolare nei Balcani.
Violenza e rimozioni del nazionalismo di Stato
Se dal 1949 il 4 novembre non è più “Festa della Vittoria” lo si deve ad un’astuzia linguistica necessaria nell’Italia repubblicana. Ma la sostanza delle celebrazioni di Stato non è cambiata: si pensi che la prima relazione ufficiale sulla disfatta di Caporetto fu pubblicata soltanto nel 1967; ancora nel 1964, lo spettacolo “Bella ciao” sulle canzoni antimilitariste della prima guerra mondiale, presentato al festival di Spoleto, suscitò le proteste di varie associazioni d’arma, un’interrogazione in parlamento, l’incriminazione per vilipendio alle forze armate. Nell’anno successivo, l’edizione discografica dello spettacolo cancellò la strofa più dura della nota canzone “Gorizia” (“Traditori signori ufficiali / voi la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / questa guerra ci insegni a punir”).
Nella visione della guerra come lotta per la libertà e e dei soldati come martiri che si sarebbero “sacrificati sull’Altare della Patria”, sono sempre mancati i fatti. Per almeno mezzo secolo, rimasero ignoti 350mila processi e 210mila sentenze di condanna pronunciate dai Tribunali militari. Operai e contadini, mandati in trincea a combattere per obiettivi che giustamente non sentivano come propri, resistettero in ogni modo: 400mila vennero denunciati sotto le armi, 470mila – soprattutto emigrati – furono renitenti.
Lo Stato Maggiore fu bestiale nella repressione: il bando Cadorna del 28 luglio 1915 introduceva la censura postale, con severe punizioni per chi avesse fornito “notizie diverse da quelle che sono portate a conoscenza del pubblico dal governo o dai comandi dell’esercito” o fosse stato colpevole di “denigrazione delle operazioni di guerra”. Quando la disperazione per la vita di trincea e gli assalti alla baionetta spinsero molte migliaia di soldati all’autolesionismo – nella speranza di essere richiamati –, il Ministero della Guerra organizzò ospedali per autolesionisti, rigorosamente isolati dalle famiglie e controllati dai Regi Carabinieri, oltre a cicli di conferenze per permettere ai medici di riconoscere e segnalare tutti i casi sospetti. A soldati che si foravano i timpani con chiodi, si stritolavano sotto grossi massi o si provocavano ascessi con iniezioni sottocutanee, gli ufficiali rispondevano con la corte marziale.
L’apice della violenza contro operai e contadini in uniforme venne raggiunta dopo la disfatta di Caporetto dell’ottobre 1917. Concordiamo, peraltro, con quanto scrisse Valiani, secondo il quale la rotta di Caporetto fu “il solo istante in cui, durante la guerra, un moto rivoluzionario sarebbe stato obbiettivamente possibile, in Italia” (L. Valiani, “Il PSI dal 1900 al 1918”, Rivista storica italiana, 1963, n. 2). Tutti coloro che vennero fatti prigionieri, circa 300mila soldati, furono considerati come sospetti disertori (e quindi bolscevichi). Al loro rientro a casa trovarono campi di internamento e interrogatori. A Gossolengo ne ammassarono in 30mila in 4 km quadrati. Un articolo di Mussolini (Il Popolo d’Italia, 9-12-1918) appoggiava l’operato dei vertici militari. Soltanto il Psi denunciò queste violenze e rivendicò la liberazione immediata di tutti gli ex-prigionieri di guerra, organizzando la Lega dei familiari dei prigionieri.
Il temuto bolscevismo crebbe davvero. Il governo decise di snellire le formalità e di liberare gli ex-prigionieri quando si convinse degli avvertimenti che Turati, leader dell’ala riformista del Psi, aveva condiviso col ministro Orlando e sintetizzato così: “Questo infierire idiota su quegli sventurati è una suprema ignominia e crea proprio quel bolscevismo che queste misure vorrebbero reprimere”. (Lettera a Kuliscioff, 8-12-1918). Dunque, la borghesia non fu sola nel temere una precipitazione rivoluzionaria come conseguenza della guerra ed ebbe consiglieri nella sinistra riformista. Già dopo Caporetto, Turati si era pronunciato per l’unità nazionale.
Caccia al bolscevico
Se il timore di una diffusione di idee socialiste e anarchiche è stato vivo sin dall’inizio del conflitto, la rivoluzione d’Ottobre in Russia e l’audace politica internazionalista del governo sovietico guidato da Lenin gettò governi, padroni e generali nel panico. Milioni di sfruttati compresero che una rivoluzione socialista avrebbe messo fine alla guerra e iniziato una nuova era della storia umana. Nel marzo 1918, timoroso del contagio di “idee malsane”, il generale Diaz, alla testa del Comando Supremo, si pronunciò per l’invio in Libia di chiunque fosse tornato dalla Russia; del resto, al loro ingresso in Italia, i soldati trentini e giuliani dell’esercito austroungarico fatti prigionieri in Russia subirono una “quarantena” ideologica. Quelli più sospettati di bolscevismo e le centinaia arruolatisi nell’Armata Rossa furono spediti nel terribile campo dell’Asinara. Ma l’onda non si fermava e addirittura, sulle note del “Piave”, si diffuse rapidamente una canzone, “Neva”, che era nata in un ospedale militare e vedeva in Lenin il liberatore del mondo. La paura dell’estendersi della rivoluzione bolscevica dominò le scelte del governo anche dopo la fine della guerra. L’Italia, infatti, partecipò all’intervento di 14 potenze straniere contro la Russia sovietica, sconfitto grazie all’audace politica internazionalista dei bolscevichi ed all’organizzazione dell’Armata Rossa.
Nessun anniversario è politicamente neutrale, e il 4 novembre da sempre è uno strumento della classe dominante per isolare e sradicare ogni contestazione al suo potere.
Prima dell’ascesa del fascismo, diversi municipi socialisti eressero monumenti ai caduti in guerra con iscrizioni che oggi sorprenderebbero. A Tolentino una lapide, distrutta dai fascisti nel 1922, cominciava così: “Possa la santità del lavoro redento fugare e uccidere per sempre il sanguinante spettro della guerra per noi e per tutte le genti del mondo/ Questa la speranza e la maledizione nostra contro chi la guerra volle e risogna”. In quella linea, per ricordare chi non tornò dal fronte, rinnoviamo oggi il nostro impegno per l’emancipazione dei lavoratori e per l’internazionalismo.