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Tutto è pronto per l’intervento militare italiano in Libia. Il 25 febbraio scorso si è riunito al Quirinale il Consiglio supremo di Difesa che ha deciso di avviare la predisposizione del contingente italiano. Ashton Carter, capo del Pentagono, ha già fornito la benedizione a una coalizione guidata da Roma. L’intervento sarà gestito direttamente della Presidenza del consiglio, in sfregio a qualsiasi passaggio parlamentare. Già quaranta uomini dei Servizi sono sul campo, mentre 50 incursori sbarcheranno a breve in Libia. La motivazione ufficiale è quella di debellare il terrorismo e riportare l’ordine nell’ex colonia italiana.
Ma qual è la ragione reale del caos e della guerra civile in Libia? Nient’altro che l’intervento lanciato dalle potenze occidentali (a guida franco-britannica, con l’appoggio degli Usa e con l’Italia atttiva ma in posizione più defilata) nell’aprile del 2011. Con il pretesto di “aiutare la rivoluzione e fermare la guerra civile” gli imperialisti hanno bombardato senza pietà città e villaggi, hanno deposto e poi ucciso sommariamente Gheddafi, con l’intenzione di spartirsi il paese e le sue riserve di petrolio. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la distruzione del vecchio apparato statale ha portato alla frammentazione del paese dove decine di milizie armate locali controllano pezzi di territorio, e dove l’Isis ha potuto crescere e consolidare le sue roccaforti, partendo dalla città di Sirte, grazie all’appoggio di cui gode da parte di storici alleati dell’occidente come Turchia e Arabia saudita.
Se nel 2011 tutti erano uniti contro il dittatore, Gheddafi, oggi l’intervento contro quali forze sarebbe diretto? In Libia è in corso una guerra per procura, dove ogni potenza ha i propri protetti. Oltre all’Isis, i due attori principali sono il governo di Tripoli, sostenuto dal Qatar e dalla Turchia, e quello di Tobruk, a est, riconosciuto dalla “comunità internazionale” (cioè dall’Occidente) , dall’Egitto e dagli Emirati arabi. L’imperialismo spinge per un governo di unità nazionale, che avrebbe il compito di richiedere l’intervento di una “forza multinazionale di pace” (per cui, naturalmente, c’è già l’avallo dell’Onu). Una copertura “democratica” per i massacri è sempre utile da dare in pasto all’opinione pubblica, anche se in questo caso si tratta di una minuscola foglia di fico. Un accordo sarebbe stato stipulato il 17 dicembre scorso in Marocco, ma non è stato ancora ratificato dai rispettivi parlamenti dato che la maggioranza dei deputati, sia a Tripoli che a Tobruk sono contrari, come del resto la maggioranza dei libici.
Le truppe occidentali non sarebbero quindi viste come liberatori, ma come occupanti. Anche perchè l’aviazione occidentale sta già intervenendo. I bombardamenti dell’aviazione francese sono continui.
I media che piangono la morte dei due tecnici italiani si dimenticano di ricordare come Sabratha, la citta dove sono stati uccisi, era stata oggetto dieci giorni prima di un pesante attacco aereo Usa che aveva ammazzato 41 persone. E si scordano di ricordare anche che con ogni probabilità i due connazionali sono stati uccisi da quelle milizie “anti-Isis” future “nostre” alleate.
L’intervento occidentale riprodurrebbe il fallimento del 2011 su una scala molto più alta. Siccome in guerra non si può essere neutrali, le truppe a guida italiana si schiererebbero al fianco di una delle parti, naturalmente a favore di Tobruk, grande protetto di Al Sisi. All’altare della “ragion di stato” cadranno all’istante nel dimenticatoio tutte le inchieste sull’omicidio di Giulio Regeni.
Una volta sbarcati a Tripoli, non sarà così facile andarsene. Si parla di schierare 5mila soldati, di cui 3mila italiani, ma questi numeri sono assolutamente ridicoli se si vuole debellare l’Isis che schiera almeno 6mila uomini in Libia e che offre uno stipendio di 1000 euro al mese per combattere nelle sue fila che si ingrossano sempre più. Serviranno più truppe e il conflitto prenderà un carattere sempre più virulento. Le tensioni con paesi della Nato come la Turchia non potranno che esacerbarsi ulteriormente. La lezione della Siria è chiara, ma sembra un libro chiuso per i governi occidentali.
“La Libia per noi è una perdita secca, la maggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale”, spiega Alberto Negri sul Sole 24 ore del 4 marzo, riferendosi all’intervento del 2011. Eppure proprio per questo Renzi ci vuole tornare, per riconquistare quel ruolo da tempo ormai perso di potenza regionale. Non a caso, quando afferma che “non è in programma una missione militare italiana in Libia“, si affretta ad aggiungere “allo stato attuale”.
É la ragione anche dell’invio di 500 militari italiani a difesa della diga di Mosul, in Iraq, diga per cui una ditta italiana ha vinto un contratto per il consolidamento, e dove nessun altro esercito occidentale è presente.
Il governo Renzi interverrà dunque non per ragioni umanitarie ma per la difesa degli interessi economici ed imperialistici della borghesia italiana. La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari, che “detiene il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei.” (Sole 24 ore, 6 marzo)
C’è anche un altro obiettivo. La classe dominante europea è ferma nella convinzione che l’unico modo di fermare l’afflusso di profughi e immigrati sia quello di chiudere le frontiere alle porte dell’Europa. “Profughi, non venite in Europa!” Questo il monito di Tusk, presidente del consiglio europeo, proferito qualche giorno fa, da far rispettare con le buone o con le cattive. Da qui l’accordo con il governo autoritario di Erdogan e lo stanziamento di 3 miliardi di euro per Ankara. Da qui la necessità di un intervento militare in Libia. Nel 2011 non funzionò, l’intervento portò all’esodo di un milione di profughi dalle coste libiche, in gran parte verso l’Italia. Ma la borghesia, come ogni uomo disperato sull’orlo del precipizio, non ragiona e torna ai suoi istinti primordiali. In questo caso, quelli del saccheggio e della prepotenza.
E dopo aver constatato il fallimento non perderanno occasione per far pagare a noi le spese di questa avventura, con altri sacrifici, e per inaspire le misure repressive a stranieri e italiani, in nome della lotta al “terrorismo”.
Al di là di ogni ipocrisia, la sorte di milioni di essere umani a governanti, banchieri e padroni non interessa. Le guerre sono solo un’altra espressione della loro politica di predominio sul mondo e di lotta per la conquista di mercati e di sfere di influenza.
Invece noi, lavoratori e giovani, da questo conflitto abbiamo solo da perdere, e per questo dobbiamo opporci in modo risoluto. L’unico modo per spazzare via la barbarie dell’Isis, del terrorismi e dei regimi dispotici mediorientali l’ha mostrato la sollevazione delle primavere arabe: è il ritorno della lotta di classe, che deve però arrivare fino al rovesciamento dell’oppressione capitalista che genera questi mostri.
Il nostro compito più importante in Italia e in Europa, e il modo più concreto per dare solidarietà ai nostri fratelli di classe, è combattere il capitalismo e l’imperialismo proprio nei nostri paesi, dove stanno i veri responsabili della barbarie che poi viene rovesciata nel mondo intero.