L’offensiva su Rafah – la scintilla che può incendiare il Medio Oriente

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L’offensiva su Rafah – la scintilla che può incendiare il Medio Oriente

immagine: Wikimedia commons.

di Fred Weston

 

Netanyahu sta portando la guerra a un altro livello. Ha intrapreso una strada dalla quale non può tornare indietro, se vuole rimanere in carica. Ma le sue azioni minacciano di destabilizzare l’intero Medio Oriente, rendendo ancora più elevato il rischio di una guerra generalizzata. Al contempo, anche la rivoluzione minaccia tutti i regimi della regione, man mano che la rabbia delle masse viene portata a livelli sempre più alti. L’ultima tragica impresa, il bombardamento a tappeto e l’invasione di terra a Rafah, potrebbe rivelarsi la goccia che fa traboccare il vaso.

Netanyahu ha dichiarato: “Lo faremo”, mentre le operazioni militari sono in preparazione. Ha aggiunto: “Chi dice che in nessuna circostanza dovremmo entrare a Rafah, sta dicendo fondamentalmente ‘perdete la guerra, lasciate che Hamas resti lì’”. Dal punto di vista dei suoi interessi personali, non può permettersi di apparire come colui che esce sconfitto da Gaza.

Il tempismo di questo piano d’invasione è eloquente. Le negoziazioni per una qualche forma di cessate il fuoco stanno apparentemente facendo progressi, con i portavoce di Hamas in viaggio verso Il Cairo oggi [14 febbraio 2024, Ndt] per incontrarsi con i mediatori egiziani e qatarioti. Dal momento che la sua sopravvivenza politica è appesa a un filo (e così la sua libertà, viste le molteplici indagini per corruzione nei suoi confronti), è interesse di Netanyahu mandare all’aria qualsiasi soluzione pacifica. Alla faccia delle accuse sioniste per cui Hamas sarebbe il solo responsabile dell’inutile protrarsi della guerra “rifiutandosi di arrendersi”!

Rafah è un città che solitamente ospita circa 250mila persone. Al momento, 1 milione e mezzo di palestinesi sono ammassati lì e vivono in condizioni intollerabili. Molti sono accampati in tendopoli, sotto la minaccia costante di un ulteriore brutale massacro. Molti di essi sono povera gente che è fuggita prima dalla città di Gaza, poi da Khan Younis, e adesso si trovano schiacciati al confine egiziano.

Le masse accalcatesi a Rafah non hanno letteralmente nessun luogo dove rifugiarsi. Netanyahu, rivelando la sua totale mancanza di umanità, il suo cinismo e profondo disprezzo per i palestinesi, ha suggerito loro di tornare a nord: “C’è un sacco di spazio lì”. Certo, ci sono un sacco di quartieri rasi al suolo dai bombardamenti, ci sono macerie. I palestinesi ammassatisi a Rafah hanno due opzioni possibili, o fuggire verso le spiagge, o fare il tentativo di tornare a nord.

Come ha scritto martedì il Financial Times, riportando la storia della famiglia di Thaer Mohamed, che era già stata precedentemente evacuata da Khan Younis: “Stiamo cercando di sfuggire alla morte, ma è ovunque intorno a noi”. Sarah Nayef ha esternato il dilemma che sta affrontando la sua famiglia: “Ci hanno lasciato senza alcun luogo nel quale fuggire. La notte in cui hanno recuperato gli ostaggi, c’è stata una pioggia di missili e ho pensato che saremmo rimasti uccisi”. Adesso, si stanno preparando a trovare rifugio in una tenda sulla zona costiera.

Entrambe le destinazioni presentano il pericolo di venire colpiti dalle forze israeliane. Mentre andiamo in stampa, l’esercito israeliano ha evacuato con la forza centinaia di palestinesi dall’ospedale Nasser a Khan Younis, uccidendo almeno tre persone e lasciandone altre dieci ferite, colpite dai cecchini israeliani. Chiunque riesca a dirigersi a nord si troverebbe a dover viaggiare attraverso aree di combattimento, solo per trovarvi edifici distrutti, nessuna infrastruttura, niente acqua o elettricità, con la minaccia costante di venire uccisi da bombe inesplose o mine.

Questo è un incubo umanitario di proporzioni inedite. Il commissario generale dell’UNRWA [Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, Ndt], Philippe Lazzarini, ha detto questa domenica: “Un’offensiva militare in mezzo a questa popolazione totalmente inerme e vulnerabile è una ricetta per il disastro. Sono senza parole”.

Mentre ancora l’avanzata vera e propria non è iniziata, sono già state uccise almeno 67 persone a Rafah, durante i bombardamenti israeliani di lunedì mattina. Mentre scrivo, gli ultimi dati dicono che almeno 28.473 palestinesi sono stati uccisi dal 7 ottobre e 68.146 sono i feriti. Si parla ora di altre decine di migliaia di palestinesi che potrebbero venire uccisi se l’esercito israeliano entrasse a Rafah.

L’esercito israeliano si sta vantando di aver messo in salvo due ostaggi e questo verrà utilizzato da Netanyahu per convincere gli israeliani che la sua strategia sta funzionando. Possiamo dare per scontato che terrà sotto silenzio il fatto che un numero molto più alto di ostaggi sono morti durante la campagna di bombardamenti.

Durante le operazioni di soccorso degli ostaggi, un’immensa potenza di fuoco è stata scaricata su Rafah. Ci sono state scene orribili di persone comuni in fuga in cerca di salvezza, alla ricerca disperata di un riparo dalle bombe. In questo momento, vivono con la paura costante che presto questo si ripeterà su larga scala in tutta la città.

Gli imperialisti con i nervi scossi

La prospettiva di altre scene orribili, a un livello ancora peggiore, che vengono viste da milioni di normali lavoratori in tutto il Medio Oriente, per non menzionare altri miliardi di persone in tutto il mondo, sta mettendo in agitazione gli imperialisti occidentali.

Questo, tuttavia, non è dovuto a una qualche preoccupazione umanitaria. Essi sono rimasti impassibili e hanno permesso che quasi 30mila palestinesi morissero per mano dell’esercito israeliano per quattro mesi, rifiutandosi persino di fare appello a un cessate il fuoco, mentre in realtà fornivano armi e rifornimenti al governo israeliano.

Questi stessi signori non hanno battuto ciglio mentre quasi 400mila persone sono morte nella recente guerra in Yemen, di cui 150mila uccise dai bombardamenti e altre 227mila, secondo le stime, morte in seguito alla carestia e all’assenza di strutture sanitarie. Questa devastazione è stata inflitta al popolo yemenita dall’Arabia Saudita, armata e sostenuta dall’imperialismo occidentale, proprio come Israele.

No, le loro preoccupazioni non riguardano le vite dei palestinesi. Le loro preoccupazioni riguardano un’ulteriore destabilizzazione della regione, inclusa la minaccia concreta del crollo di qualcuno dei regimi vicini.

Questo spiegherebbe perché canali occidentali come la BBC si siano accorti solo ora del fatto che si stia infliggendo una terribile sofferenza al popolo di Gaza. Hanno recentemente pubblicato un documentario sul primo mese di guerra, che descrive scene di ambulanze che vengono colpite dall’esercito israeliano mentre vanno a soccorrere i feriti.

Certo, nel telegiornale della BBC, mandato in onda martedì, hanno aggiunto il commento ufficiale dell’esercito israeliano che afferma di non prendere di mira il personale medico. Devono pur sempre garantire al governo israeliano e alle forze armate israeliane il diritto di esprimere il proprio punto di vista e di “correggere” qualsiasi notizia che potrebbe danneggiare la loro immagine.

Un tale diritto non viene però garantito ai palestinesi o a chiunque manifesti in loro solidarietà. Al contrario, ogni volta che le cifre quotidiane dei morti vengono diffuse, i media si sentono obbligati a aggiungere “secondo il Ministero della Sanità gestito da Hamas”, come per sottintendere che potrebbero fornire cifre esagerate. Indubbiamente, questo viene fatto per tranquillizzare le ambasciate israeliane che sono sempre pronte a scattare a ogni dichiarazione che ritengono possa essere interpretata come “antisemita”.

Tuttavia, il fatto che stiano riportando più notizie sulle sofferenze dei civili e mostrando almeno alcuni dei comportamenti più brutali dell’esercito israeliano nel mezzo della guerra è un indicatore del fatto che stanno cercando di fare pressione sul governo di Netanyahu affinché acconsenta a un cessate il fuoco temporaneo. Il problema è che Netanyahu ha un piano tutto suo.

I media sionisti dentro Israele censurano qualsiasi notizia sui reali effetti dei bombardamenti israeliani a Gaza, e manipolano le menti degli israeliani dicendo loro che la popolazione palestinese nel suo complesso è una minaccia alla loro sicurezza. Una parte del loro obiettivo è rendere i palestinesi disumani, il primo passo per preparare il terreno per massacrarli come animali.

La tragica ironia è che questo tipo di disumanizzazione e massacro è precisamente quello che milioni di ebrei hanno sofferto per mano dei nazisti. Hitler si riferiva alla presenza ebraica in Germania come una “razza che trasmette la tubercolosi in mezzo ai popoli”, cioè un morbo da sradicare. La propaganda nazista dipingeva gli ebrei come creature “subumane”.

Appena due giorni fa, il ministro della Sicurezza Nazionale Ben-Gvir ha definito le donne e i bambini palestinesi “terroristi sotto copertura” e ha proseguito: “Non possiamo permettere che donne e bambini si avvicinino al confine… chiunque si avvicini deve ricevere un proiettile [in testa, Nda]”.

La situazione dentro Israele

Il Financial Times ha recentemente pubblicato un articolo, “La guerra contro Hamas unisce gli israeliani nell’obiettivo di una ‘vittoria totale’” (12 febbraio 2024), che spiega che “… le immense sofferenze a Gaza trapelano appena nei media israeliani, mentre il dibattito nazionale rimane paralizzato dal trauma di un giorno che i funzionari israeliani descrivono come il più fatale per gli ebrei dall’Olocausto”.

C’è una paura autentica tra le persone comuni in Israele che un altro Olocausto possa verificarsi. Dopotutto, quello che sembrava inimmaginabile è effettivamente accaduto sotto il regime nazista. Netanyahu ha interesse a alimentare questo stato d’animo. In effetti, gli arabi vengono dipinti dai sionisti come l’equivalente odierno dei nazisti, disposti a tutto pur di distruggere gli ebrei. È questo terrorismo psicologico che permette a Netanyahu di sopravvivere politicamente, anche quando tutti i sondaggi mostrano che perderebbe in maniera schiacciante qualsiasi elezione che venisse indetta nel prossimo periodo.

Lo stato d’animo in Israele è dunque molto differente da quello degli altri paesi. Nelle nazioni arabe circostanti, il massacro quotidiano viene mandato in onda tutti i giorni. Al Jazeera ha fornito una copertura sul campo di tutte le sofferenze del popolo di Gaza. La rabbia e il ribrezzo, e il naturale istinto di solidarietà nei confronti dei palestinesi, è la logica conseguenza di tutto ciò.

Sono due mondi molto differenti. Il sottotitolo dell’articolo del Financial Times recita: “I sondaggi suggeriscono che la maggioranza della popolazione [in Israele, Nda] sostiene la battaglia per sconfiggere i miliziani e riportare a casa gli ostaggi”. Lo stesso articolo cita Tamar Hermann, un ricercatore dell’Istituto per la Democrazia di Israele: “Certo, la maggior parte dell’opinione pubblica degli ebrei israeliani non è a favore di un ritiro da Gaza. La guerra viene percepita in Israele come una guerra senza opzioni”. E lungi dal chiedere una distensione del conflitto – l’articolo sottolinea che: “piuttosto che la fine della guerra a Gaza, molti israeliani pensano che lo Stato dovrebbe intensificare su un altro fronte: il fronte settentrionale con il Libano”.

La logica di ciò è che temono che un giorno Hezbollah possa lanciare un attacco molto più grande di quello portato avanti da Hamas. Lo stato d’animo è dunque quello di “voler portare a termine il lavoro”. Israele e Hezbollah già ingaggiano schermaglie dal 7 ottobre. Mentre la gran parte degli ultimi razzi è stata intercettata dal sistema difensivo israeliano Cupola di Ferro, un attacco a Safed, nel nord di Israele oggi [14 febbraio 2024, Ndt] ha ucciso una soldatessa e ne ha feriti parecchi altri. Gli israeliani hanno risposto immediatamente con attacchi aerei nel sud del Libano. Il pericolo di un conflitto in piena regola è latente nella situazione con l’intensificarsi degli scontri.

Mentre i media borghesi occidentali si scandalizzano per l’utilizzo del termine “genocidio”, molti esponenti della destra israeliana proclamano che è precisamente questo il loro obiettivo. Una breve ricerca tra i commenti sui social media o tra i commenti agli articoli di giornali rivela un lato molto oscuro che è presente nella società israeliana.

Quello che dobbiamo comprendere è che, negli ultimi decenni, la società israeliana si è spostata costantemente verso destra. Quella che veniva percepita come la “sinistra” è stata screditata agli occhi della gente comune a Israele. Questo era in linea con il discredito generale della cosiddetta “sinistra” a livello globale, dal momento che i partiti laburisti, i partiti socialisti e la socialdemocrazia in generale, partecipavano alla distruzione delle riforme sociali che essi stessi avevano portato avanti in precedenza nel periodo del boom postbellico. Questo ha portato all’attuale situazione nella quale sono diventati indistinguibili, agli occhi di molti lavoratori, dai partiti conservatori di ogni dove.

Sono finiti i tempi in cui Mapai (acronimo di Partito dei lavoratori di Eretz Israel, che nel 1968 si sciolse e divenne parte del Partito Laburista Israeliano) portava avanti riforme di welfare, incluso l’accesso quasi gratuito alle case popolari, ai servizi sanitari e sociali per gli ebrei israeliani. Nel primo decennio della sua esistenza, gran parte dell’economia di Israele era o in mano a imprese statali o a partecipazione statale. Il fatto che il “sindacato” Histadrut per un lungo periodo fosse il più grosso datore di lavoro dopo lo Stato ne era un riflesso.

Tutte le risorse in mano allo Stato sono state in seguito privatizzate. Sia sotto i governi laburisti sia sotto quelli del Likud, il vecchio stato sociale israeliano è stato gradualmente smantellato, con un trasferimento massiccio di risorse dal settore pubblico ad alcuni dei più ricchi investitori del paese. I laburisti, a un certo punto, dopo le elezioni del 1984, entrarono in un governo di unità nazionale col Likud, erodendo ulteriormente la propria popolarità tra il proprio elettorato tradizionale.

Questo ha creato uno scenario nel quale una parte significativa della popolazione, specialmente i settori più poveri, si è sentita abbandonata dai politici tradizionali. È su questa base che prima abbiamo visto uno spostamento verso il Likud e poi che gli elementi di estrema destra sono stati capaci di consolidare la propria presa su un settore della società.

Se questi partiti potevano avere delle divergenze sulla politica sociale, tuttavia, quando si giungeva alla questione palestinese, non c’erano differenze sostanziali. Dirigenti come David Ben-Gurion, Golda Meir, Shimon Peres, Itzhak Rabin, ecc., sono stati responsabili tanto quanto, se non di più, la “destra” sionista di aver iscritto l’oppressione dei palestinese nelle fondamenta stesse dello Stato di Israele.

In questo processo, la “sinistra” sionista è stata semplicemente spazzata via dal periodo di declino globale del capitalismo e dalla dinamica dell’occupazione. Netanyahu è salito alla ribalta mostrandosi come il più efficace in politica bellica, con un approccio “occhio per occhio” all’occupazione, e nell’appoggiare la colonizzazione e i coloni. L’ultima prova di impotenza dei “liberali” sionisti si è verificata nel corso dei molti mesi delle proteste contro Netanyahu e ha rivelato quanto siano insensibili all’oppressione dei palestinesi.

Lo stesso processo che ha visto l’ascesa di Trump, Bolsonaro, Boris Johnson, Le Pen, ha visto l’emergere e il rafforzarsi di Netanyahu. Il tratto caratteristico in Israele è la profonda divisione tra ebrei e palestinesi, il rifiuto da parte di un popolo di concedere una patria a un altro popolo, che ha esacerbato questo fenomeno all’ennesima potenza.

Nello sprofondare della crisi interna di Israele, con aspre divisioni politiche all’interno della classe dominante sionista, Netanyahu si è trovato con un debito sempre maggiore nei confronti dei partiti di estrema destra.

Piani per ricolonizzare Gaza

immagine: Yairfridman2003, Wikimedia Commons.

Questo spiega anche perché adesso, in Israele, si stia parlando di ricominciare con il programma di colonizzazione a Gaza, che venne abbandonato nel 2005. Esso viene presentato come l’unico modo di garantire la “sicurezza”.

Un articolo sul sito New Arab, “In Israele, la ricolonizzazione di Gaza non è più un’idea minoritaria”, spiega che: “In assenza di un piano ufficiale postbellico, le idee estremiste riservate una volta ai margini della società si stanno imponendo sulla politica ufficiale di Israele”.

L’articolo racconta di una recente conferenza organizzata a Gerusalemme che faceva appello a una ricolonizzazione della Striscia di Gaza. Non era una riunione di estremisti. A quanto sembra, c’erano migliaia di persone presenti. Almeno 12 ministri del partito Likud erano lì, come anche 15 membri della coalizione di governo. Il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano, Itamar Ben Gvir, era presente, e questo è quello che ha detto nel suo discorso: “Se non vogliamo un altro 7 ottobre, dobbiamo tornare a casa e controllare [Gaza, Nda]. Dobbiamo trovare un modo legale di fare emigrare volontariamente [i Palestinesi, Nda]”. Il ministro delle Finanze Smotrich, un fanatico di estrema destra, era anch’egli presente e ha aggiunto che: “Senza insediamenti [a Gaza, Nda], non c’è sicurezza”.

Questa gente è convinta che Gaza sia una loro proprietà. Allo stesso modo, credono che la Cisgiordania sia parte della loro “Terra Promessa”, e pianificano di fare nella Striscia quello che hanno fatto in Cisgiordania: mettere soldati e coloni sul terreno e cacciare via gradualmente i palestinesi.

La maggioranza degli israeliani non appoggia questa posizione, ma sta ottenendo credito crescente. Un articolo evidenzia: “Un recente sondaggio israeliano di Channel 12 ha riscontrato che 4 israeliani su 10 appoggiano una ripresa degli insediamenti a Gaza”.

Questo è lo stato d’animo che domina nella destra. Netanyahu dipende da questa gente ed è per questo che deve accontentarli. L’attacco in preparazione a Rafah è parte di questa politica.

E questo ci riporta a Rafah oggi. Circa tre quarti dei palestinesi di Gaza sono ammassati lì. In parte, Netanyahu sta pensando chiaramente di spingere fuori dalla Striscia di Gaza un settore importante di questa popolazione: l’unico posto nel quale potrebbero andare sarebbe l’Egitto. Il governo di Netanyahu coltiva la speranza di ottenere quello che era accaduto nel 1967, quando più di 400mila palestinesi vennero espulsi dalla Cisgiordania e dalle Alture del Golan, preparando così il terreno al programma di colonizzazione.

Questo comporterebbe un riequilibrio graduale e di lungo termine della composizione etnica di Gaza. Alcuni verrebbero espulsi, mentre il numero dei coloni [israeliani, Ndt] si accrescerebbe sistematicamente. Ciò è perfettamente in linea con gli obiettivi a lungo termine del progetto sionista fin dal suo inizio.

Verso un allargamento del conflitto

Questo piano è un fattore importante nel trascinare la situazione attuale sempre di più verso un allargamento del conflitto. La situazione si sta facendo talmente tesa che anche il regime egiziano di Al-Sisi sta minacciando che, se Israele dovesse scatenare un disastro umanitario a Rafah, l’accordo di pace firmato nel 1979 tra Israele e l’Egitto sarebbe a rischio.

Il regime di Al-Sisi non è un amico del popolo egiziano, o dei palestinesi per quello che vale. Tuttavia, persino questo regime reazionario riesce a percepire la pressione che sta montando nel profondo della società egiziana. Si sta preparando una nuova rivoluzione araba nello stile di quella del 2011, e le sofferenze dei palestinesi potrebbero rivelarsi la scintilla che dà fuoco alle polveri.

Questo spiega la retorica bellicosa di Al-Sisi. Egli non ha mai fatto nulla per i palestinesi. In effetti, ha aiutato Israele a tenere i gazawi rinchiusi in una prigione a cielo aperto per anni. Anche adesso, l’esercito egiziano sta agendo come guardia di frontiera di Israele, accerchiando i palestinesi dentro Gaza, permettendo solo a pochissimi di passare attraverso il corridoio di Rafah, in cambio di mazzette anche di 10mila dollari.

Ma Al-Sisi ha bisogno di apparire come un oppositore del piano di avanzata a Rafah di Netanyahu. Il massacro delle gente che si è accalcata in quella città porterebbe all’evacuazione di centinaia di migliaia di persone, aumentando enormemente la possibilità che riescano a irrompere nella Penisola del Sinai, appena oltre il confine.

Un altro fattore nei calcoli di Al-Sisi è che l’evacuazione di diverse centinaia di migliaia di gazawi nei campi profughi della Penisola del Sinai si potrebbe trasformare in un forte fattore di destabilizzazione nelle relazioni future con Israele, fino al rischio dello scoppio di future guerre tra i due paesi. Egli comprende che tali campi profughi – dopo il numero senza precedenti di palestinesi uccisi in questa guerra – sarebbe un terreno di coltura per la radicalizzazione di una nuova generazione di giovani palestinesi, determinati a combattere per riconquistare la propria patria, similmente a quanto era accaduto in Libano negli anni ’70.

Il governo israeliano sta scommettendo sulla continuazione della collaborazione con l’Egitto. Tuttavia, non c’è alcuna certezza che Al-Sisi sarà in grado di garantire una simile collaborazione. Questo non perché gli importi qualcosa dei palestinesi, ma perché ha bisogno di apparire agli occhi delle masse egiziane come un nemico di Israele nel momento in cui esso massacra i palestinesi appena oltre il suo confine.

Questo spiega anche perché l’Egitto stia facendo pressione sui dirigenti di Hamas per accettare un qualche tipo di accordo che possa condurre a un cessate il fuoco. Hanno disperatamente bisogno di spegnere le fiamme. Il problema è che i piani dei sionisti rispetto a Gaza lasciano davvero poco spazio per tali manovre.

E se le fiamme non vengono spente a Gaza, potrebbero estendersi da un regime all’altro in un’ondata di insurrezioni di massa che potrebbero rovesciare molti dei despoti reazionari della regione. Il re della Giordania si mostra anch’egli preoccupato, dal momento che è seduto su una bomba ugualmente pronta a esplodere.

La crisi globale del capitalismo ha creato in tutta la regione le condizioni sociali ed economiche che preparano il terreno per un simile scenario.

Questo è l’incubo che gli imperialisti si trovano sotto gli occhi e per cui non hanno nessuna reale soluzione di lungo periodo. Il motivo di ciò è che sono loro il problema principale. Loro hanno creato questo caos e l’unica reale soluzione è farli cadere tutti.

La cosa migliore che come comunisti in tutto il mondo possiamo fare per il popolo palestinese è lottare nei nostri paesi contro le nostre stesse classi dominanti. Questo può essere ottenuto solo attraverso la lotta di classe rivoluzionaria a livello internazionale che, per avere successo, richiede una direzione comunista rivoluzionaria.

Siamo tutti disgustati e adirati dalle scene che stiamo osservando a Rafah e altrove, soprattutto per il bagno di sangue a Gaza City, a Khan Younis, e in altre città e villaggi. Ma la rabbia non basta. Organizzati e unisciti ai comunisti nella battaglia per porre fine a questo incubo.

 

14 febbraio 2024

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