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Il 9 febbraio la Commissione europea ha pubblicato le linee guida “ambientali” da soddisfare per accedere al Recovery Fund. Nella fattispecie si richiede l’allocazione di almeno il 37% dell’ammontare totale delle risorse ricevute nella green economy.
La borghesia europea, soprattutto quella tedesca, si lancia all’inseguimento della classe capitalista cinese e statunitense nei nuovi settori: mobilità elettrica, energie alternative, ecc. L’Italia, quale principale beneficiario dei fondi europei, dovrà destinare circa 77 miliardi alle politiche verdi. Non a caso il governo Draghi, allestito dalla classe dominante italiana per gestire i fondi del Recovery, esordisce istituendo il nuovo “Ministero della transizione ecologica”. Il super ministro Roberto Cingolani, figura chiave del nuovo governo, aggiungerà alle competenze dell’ambiente alcune di quelle fin qui appannaggio del Ministero dell’industria e dello sviluppo economico nel campo dell’energia, delle infrastrutture e trasporti (mobilità e incentivi), e del Ministero dell’agricoltura (biocombustibili).
Cingolani e l’Istituto italiano di tecnologia
Sebbene Beppe Grillo acclami Cingolani come la grande “novità”, in nome della quale sostenere il governo Draghi, il profilo del ministro è già noto da tempo alla comunità scientifica e imprenditoriale italiana. Fisico di formazione, dal 2005 al 2019 è direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, nel quale faceva in parte anche le veci di amministratore delegato. L’Iit è un soggetto di diritto privato finanziato con denaro pubblico, i cui vertici sono di nomina politica e non soggetti a nessuna valutazione.
Molti esponenti del mondo scientifico, tra cui la senatrice Elena Cattaneo, criticano da anni l’Iit per aver ottenuto una pioggia di fondi assegnati senza gare competitive, senza trasparenza sulle assegnazioni, senza controlli. Si parla di 100 milioni all’anno: oltre 1 miliardo di euro in 11 anni. Non solo, l’Istituto di Genova ha utilizzato solo la metà di questi finanziamenti, ed il rapporto tra soldi spesi e numero di pubblicazioni scientifiche è il più basso tra quelli dei principali enti di ricerca italiani. Secondo una relazione della Corte dei conti, nel 2016 l’Iit ha inserito sotto la voce “disponibilità liquide” 426 milioni in un “conto corrente infruttifero aperto presso la Tesoreria centrale dello Stato”, mentre una quota di 22 milioni era depositata presso alcune banche private. Nel 2006 Cingolani trasferì 3,5 milioni di euro dai fondi dell’Iit al Laboratorio nazionale di nanotecnologie di Lecce diretto dalla ex-moglie Rosaria Rinaldi. In un paese dove la ricerca scientifica piange sangue, e 14mila ricercatori (tra il 2008 e il 2019) hanno dovuto emigrare all’estero, il “tesoretto” dell’Iit suscita rabbia e imbarazzo. Basti pensare che i fondi Fisr del ministero della Ricerca per l’emergenza Covid chiesti a giugno 2020 da università e centri di ricerca pubblici non sono stati ancora assegnati.
Sempre Cingolani è stato segnalato da Renzi, allora presidente del Consiglio, come amministratore di Human Technopole. L’Istituto italiano di tecnologia doveva costituire il centro appaltante del progetto, ricevendo un finanziamento pari a 1,5 miliardi in dieci anni. La notizia ha scatenato grandi polemiche all’interno del mondo scientifico italiano, con la richiesta che i temi di ricerca e i destinatari dei finanziamenti fossero scelti in modo trasparente, competitivo, premiando i migliori progetti messi in gara. Dopo le proteste il piano di Renzi venne riscritto e Ht assegnato a un comitato e poi al direttore Iain Mattaj. Tre ministri e un capo di gabinetto del governo Draghi provengono dallo Human Technopole. Oltre a Cingolani gli altri due ministri sono Maria Cristina Messa (Università e ricerca) e Daniele Franco (Economia), a cui si aggiunge Marcella Panucci (capo di gabinetto alla Funzione pubblica). I primi due siedono nel comitato di sorveglianza di Ht, mentre Messa fa parte dell’organismo che ha preceduto e preparato l’attuale governance.
Dall’Iit all’industria militare
Nel 2019 Cingolani è approdato alla Leonardo, società del settore difesa e aerospazio, come Chief innovation & technology officer. “L’obiettivo formale della sua nomina consiste nel portare la sostenibilità ambientale in un business, quello aerospaziale-militare, che sta all’ambiente come dracula all’Avis” (cit. Gianni Barbacetto e Laura Margottini, inviati del Fatto Quotidiano). L’azienda risulta impegnata nella messa a punto di armamenti nucleari attraverso la joint venture Mbda (principale consorzio europeo nelle tecnologie per la difesa). Produce missili e sistemi missilistici per qualsiasi tipo di piattaforma e per i principali settori di mercato, oltre a cacciabombardieri (tra cui i famigerati F-35, costosi quanto difettosi), elicotteri militari e droni. Nell’aprile del 2020, in pieno sconquasso da pandemia, il governo Conte ha acquistato dalla Leonardo di Cameri ben 15 elicotteri di ultima generazione AW-169M. L’acquisto, fortemente voluto dal ministro Pd della difesa, Lorenzo Guerini, è costato alle casse erariali 337 milioni di euro.
Ovunque la crisi rende il grande capitale sempre più avido e bisognoso della stampella statale. A questo servono figure di tecnici (o scienziati) manager di cui Cingolani è un buon esempio, capaci di porsi a cavallo dei flussi tra denaro pubblico e imprese private, governandoli nell’interesse di queste ultime, oltre che dei propri.
Molto abile nell’intrecciare rapporti, ha saputo dirottare miliardi di soldi pubblici verso le società private in cui aveva (o avrebbe avuto) un ruolo dirigenziale. Non a caso quindi il suo profilo emerge proprio in occasione dei prestiti europei in arrivo. Mentre l’università e la ricerca pubbliche vanno incontro a tagli, ridimensionamenti ed esternalizzazioni, i centri di ricerca privati, tra cui quelli gestiti direttamente dal ministero del Tesoro (come Iit e Human Technopole), fanno man bassa di fondi statali.
Non stupisce quindi che il numero di ricercatori italiani dal 2005 al 2016 sia cresciuto solo all’interno delle industrie private. Sono ormai 72mila contro i 78mila (stazionari) delle università. La spesa italiana in ricerca e sviluppo è pari all’1,4% del Pil, contro la media Ue del 2 per cento. Come si evince dal grafico dell’Eurostat qui accluso (2016) gran parte dei fondi investiti dalle imprese (circa il 98%) rimane all’interno del settore stesso; il settore pubblico versa al privato 490 milioni, per riceverne meno della metà; infine, la stragrande maggioranza dei finanziamenti dall’estero (per lo più europei) viene riscossa dalle imprese (1807 milioni sul totale di 2260).
Draghi e i suoi ministri scendono in campo per tutelare gli interessi dei loro amici e alleati storici. La Confindustria e i mercati plaudono al proprio uomo. Nel campo della ricerca energetica e ambientale, enti e ricercatori pubblici non hanno che da aspettarsi briciole; il grosso dei finanziamenti seguirà le solite logiche clientelari, sparendo nei bilanci della società di turno. I lavoratori del settore, e chiunque abbia a cuore l’ambiente e il progresso scientifico, debbono restare allerta e prepararsi a un futuro di lotte e mobilitazioni. Il mondo della ricerca non può più permettersi di essere ostaggio dei favoritismi politici e delle dinamiche predatorie del mondo capitalista.
*medico e ricercatore clinico